Quando Giorgia Meloni ha annunciato la lista dei ministri, hanno creato molta sorpresa le nuove denominazioni di alcuni ministeri. Ben otto hanno cambiato nome. Fra questi, in particolare, hanno colpito il ministero delle Pari opportunità e famiglia, diventato «Ministero della Famiglia, natalità e pari opportunità»; il ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali riciclato in «Ministero dell’Agricoltura e sovranità alimentare»; il ministero dell’Istruzione trasformato in «Ministero dell’Istruzione e del merito» e, infine, il vecchio ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo ribattezzato «Ministero della cultura». La scelta di alcune parole ha fatto pensare a un linguaggio in auge nel Ventennio e si sa, la premier non riesce ancora a scrollarsi di dosso i sospetti di simpatie mussoliniane. L’aver puntato su un presidente del Senato che colleziona cimeli fascisti e che di secondo nome fa Benito non l’aiuta certo.
Neppure le numerose e ferme prese di distanza sono finora riuscite a darle una acclarata verginità antifascista ed è facile quindi prevedere che il pregiudizio vivrà a lungo. Il cambio di nomi ai ministeri, però, andrebbe criticato per un’altra ragione: l’inutile dispendio di soldi che comporterà, dalla produzione di carta intestata con la denominazione aggiornata, alla realizzazione di timbri e targhe. Per quanto riguarda il polverone sollevato dalla terminologia va detto che non di’operazione nostalgica si tratta, bensì di strategia mediatica e illusione ideologica. Mediatica perché serve a riaffermare il dna destrorso, ben sapendo che l’attività di governo porterà a rinunciare a molte promesse fatte, oltre che far sbiadire il colore politico. Ma è anche strategia diretta verso quei nostalgici, che sfiduciati e demoralizzati, non sono andati alle urne. Un intervento sulla forma che non potrà avere grande rilievo sulla sostanza, poiché le dinamiche nazionali e internazionali sono ormai tali che – almeno in Italia – non possono esserci passi indietro nella Storia.
Ma c’è anche un altro aspetto. Pensare che inserendo il termine «merito» nella dicitura del ministero dell’Istruzione i più bravi e capaci vinceranno i concorsi e arriveranno nei posti di comando, oppure che con il ministero della Natalità gli italiani faranno figli come conigli è un’ingenuità. O meglio è il tentativo di far credere ciò che non è, obiettivo tipico della comunicazione. Neppure nella nostra era ipertecnologica si può dimenticare che la parola è strumento fondamentale della comunicazione. Il primo e più importante, cui viene attribuita addirittura un’origine divina. Anzi, per i cristiani la parola è Dio stesso, come ricorda il celebre incipit del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio». Anche se l’originale greco è molto più ricco e preciso del latino «verbum», poiché Giovani usa il termine «logos» che indica sia la parola sia il pensiero in quanto sua manifestazione. Ma ciò che in questo blog più interessa è l’illusione ideologica sottesa al cambio di denominazione.
L’ideologia sta nel credere che cambiando le parole si possa trasformare la realtà. Ora è vero che viviamo in un mondo dominato e plasmato dalla comunicazione, ma le parole non hanno la forza in sé di riuscire a modificare la realtà. Ciò che possiede questa potenzialità è l’uso che se ne fa. Gli stessi significati che nel tempo vengono attribuiti alle parole sono dati dal loro uso e questo spiega perché nessuna lingua vivente è statica, ma si evolve continuamente. L’Italia da qualche tempo è riuscita a superare l’avversione postbellica verso termini come patria, nazione e molte altre perché cavalli di battaglia del fascismo. Stesso discorso vale per il «voi» – sempre meno utilizzato – preferito al «lei» da Mussolini e soci. Ma al Sud, fino a non molto tempo fa, agli anziani, anche quando erano di famiglia, ci si rivolgeva con il voi in segno di rispetto e non certo di affiliazione politica.
Le parole dunque non sono né di destra né di sinistra, né fasciste né democratiche. Esiste solo la «parola contraria», come ha dimostrato Erri De Luca difendendo il diritto di tutti a esprimere la propria. La stessa cosa che il Testo unico dei doveri impone ai giornalisti. Certe parole, però, possono essere usate più da una parte che dall’altra e questo genera un certo pregiudizio. Per esempio il termine «patria», secondo i vocabolari, indica la terra del padre, stop. Ma fino a non molto tempo fa si preferiva sempre «Paese», vocabolo non compromesso in nessuna triade con Dio e famiglia. Ora, se in molti si preoccupano o si scandalizzano per l’introduzione di merito, sovranità o natalità, nessuno si interroga per l’uso superficiale di buona parte delle parole con cui comunichiamo e per la montante povertà lessicale. Dieci anni fa si calcolava che in media gli italiani utilizzassero 700 parole, oggi siamo scesi a poco più di 300 e infatti a scuola i ragazzi «figli del touch» non riescono più a comprendere un testo più lungo di tre righe. La prospettiva è quella di una nuova Babele, guarda caso un archetipo della sacralità del linguaggio. Polemizzare per le nuove denominazioni può servire a «fare ammuìna», come si dice a Napoli per indicare una finta attività. Ciò che deve interessare per davvero è l’uso di quelle parole e cioè quanto quei ministeri – a cominciare da quello altisonante della Cultura – riusciranno a realizzare oppure no.