Al mercato tutti urlano per sopraffare la voce degli altri. Nella società mediatica accade più o meno la stessa cosa. Chi vuole mettersi in evidenza deve dire ogni giorno qualcosa che scavalchi le affermazioni altrui. Solo così si diventa popolari e si mietono consensi. O almeno questa è la credenza diffusa. Matteo Salvini è uno dei seguaci più fedeli di questa dottrina sin da quando era ministro. Un post già dal primo mattino, solo per dire che stava facendo colazione con la Nutella, e poi dichiarazioni, comunicati, polemiche fino a sera, tutto sapientemente dosato come i farmaci prescritti da un medico. Anche quando ha smesso di fare il ministro ha proseguito sulla stessa strada.
L’importante è essere sulle home page, tenere viva l’attenzione dei follower e l’indomani avere titoli sui giornali. La strategia è diffusa ed è per questo che buona parte della politica italiana è ormai fatta di comunicazione, cioè di parole vuote che servono solo per fare titoloni. In una realtà mediatica chiassosa e urlante come si può allora comunicare seriamente? Basta dare più spazio al silenzio. È solo in un contesto silenzioso che si trova ascolto, termine che significa appunto udire con attenzione ma anche disponibilità a sentire i pensieri e le ragioni dell’altro. Oggi tutti – non solo Salvini – comunichiamo 24 ore su 24. Ma ascoltiamo pochissimo, anzi quasi nulla. Ecco allora la strategia di parlare il meno possibile proprio per ottenere ascolto e dare valore a quello che si dice. È l’esempio di Mattarella, parco di discorsi e di commenti se confrontato a un altro presidente, Francesco Cossiga, che si meritò il soprannome di «picconatore».
Negli ultimi anni del suo mandato era diventato la spina nel fianco dei giornalisti: ogni sera, dopo le 20, un comunicato stampa o una dichiarazione che costringeva le redazioni a rifare mezzo giornale. E per fortuna che non c’erano ancora WhatsApp e Twitter. Misurare le parole nella società contemporanea è come essere un calciatore che tocca pochi palloni, ma i suoi due passaggi sono assist da gol e fanno vincere le partite. Però occorrono tempra, coraggio e resistenza alle pressioni di quanti – a partire da noi giornalisti – vorremmo una frase, un’esclamazione, magari una battuta al veleno. In questa fase post voto è da apprezzare la strategia mediatica di Giorgia Meloni, vincitrice indiscussa e premier in pectore. Meloni non è una che nella tenzone dialettica si tira indietro o che la manda a dire. No, col suo piglio da orgogliosa borgatara sa tener testa a chiunque.
Eppure la sua reazione dopo la debordante vittoria elettorale è stata misurata, composta, elegante. Assai più rumorosa quella dell’alleato Salvini, che pure non aveva vinto un bel niente e che anzi ha dilapidato buona parte dei consensi del suo partito. E lo stesso vale per Silvio Berlusconi, che con la stessa abilità è riuscito a far passare per vittoria il dimezzamento dei voti di Forza Italia. Si dirà: basta urlare, confondere le idee, distrarre l’attenzione. Dalla notte del 25 settembre la voce di Giorgia Meloni l’abbiamo ascoltata pochissime volte e sempre con interventi adeguati al momento. Compresa da ultimo la replica alle parole – in gergo calcistico si direbbe al «tackle scivolato» – della ministra francese Laurence Boone («Vogliamo lavorare con Roma, ma vigileremo su rispetto di diritti e libertà e saremo molto attenti al rispetto dei valori e delle regole dello Stato di diritto»).
La futura premier l’ha definita una «inaccettabile minaccia d’ingerenza» riscuotendo anche l’immediato appoggio di Mattarella («L’Italia sa badare a se stessa»). Se si parla poco e bene – come recita un vecchio adagio barese – allora è molto alta la probabilità di essere ascoltati e quindi capiti. Proprio la propensione all’uso parco delle parole sembra in questo momento il tratto che più accomuna Meloni al presidente uscente. Quando arrivò a Palazzo Chigi, Mario Draghi suscitò grande sorpresa: non aveva ufficio stampa né portavoce. In fretta e furia dovette chiamare dalla Banca d’Italia una fidata collaboratrice che aveva lavorato con lui quando era Governatore. E in seguito le cose non sono cambiate molto. Le sue conferenze stampa si misurano in quarti d’ora; il predecessore Giuseppe Conte, ai tempi del Covid, parlava per due ore per annunciare il lockdown. Del resto Draghi viene da una scuola che del silenzio ha fatto una virtù. Come non ricordare il mitico presidente di Mediobanca, Enrico Cuccia, che per decenni ha tenuto in scacco torme di giornalisti? Per ritrovare la dignità perduta della politica anche rivedere le strategie di comunicazione può essere utile.
L’esempio conta molto e induce gli altri ad abbassare i toni e ridurre gli interventi. Si creano meno polemiche, meno tensioni, meno equivoci e si può lavorare meglio. Soprattutto non si perde tempo dietro alle chiacchiere fatte apposta per tenere alto il proprio nome. E il tempo, più ancora del petrolio, del gas e dei soldi, è un bene davvero introvabile, soprattutto perché nessuno sa di quanto ne dispone. Allora ben venga e sia di buon auspicio questo tentativo di andare oltre la Babele della politica.