Un mare di mezzo: separa i destini di quelli che abitano da una parte e dall’altra, spacca il mappamondo, segna il confine tra ricchezza e povertà, tra pace e guerra, tra essere e non essere, tra passato e futuro. Un muro d’acqua nelle cui fessure sono conservati i segreti dei marinai e dei pescatori, ma oggi anche le lacrime e le preghiere dei naufraghi. Un mare da attraversare, dopo aver attraversato i deserti e le megalopoli di stracci e lamiere di non-nazioni avvitate nei conflitti, nella carestia, nella siccità, nella malattia.
Fuggire, vendersi a un trafficante di umanità sbandata, guadagnare una zattera, un traghetto, una barca con al timone un pirata. Fuggire in cerca di un riparo, di una chance, di un nuovo inizio. Il Mediterraneo, un mare di mezzo che continua a sprigionare tutta la sua potenza culturale di deposito di memorie e di fucina di suggestioni e metafore. Eppure da troppo tempo è diventato un mare che la vita la inghiotte, la divora oscenamente e ne sputa i resti nei suoi abissi (e nella nostra occidentale ipocrisia). Un cimitero liquido, in cui affogano le promesse della buona globalizzazione e galleggiano i relitti desolanti della globalizzazione vera: quella cattiva, cinicamente governata dai mercanti e dalla finanza, quella che sacralizza la libera circolazione delle merci e dei capitali ma erge barriere sempre più spesse per le persone.
Le persone concrete, quando sono povere e scappano dal loro calvario, hanno diritti che valgono poco e che diventano storti, hanno esistenze leggere come piume sulla bilancia dei nostri valori, sono appesi alle dogane del nostro collassato turbo-capitalismo e frequentano le galere amministrative delle nostre barbariche modernità.
Era un posto magico Lampedusa, ora è come l’ingresso in un immenso sepolcro marino. Ogni giorno contiamo i morti. Un’algebra veloce, tanto ci stiamo abituando, siamo come burocrati della morte. Non sapremo mai i nomi di quei bimbi, di quei ragazzi, di quelle donne magari velate, di quella gente dispersa tra le onde, non porteremo fiori e biglietti come attorno ai buchi delle Torri gemelle, non costruiremo un memoriale sull’acqua. Eppure siamo convocati da questa processione di cadaveri, di sommersi dalla morte e dall’oblio: ci chiedono di rompere il cerchio maledetto del fatalismo.
Noi qui parliamo di sicurezza, ci difendiamo dalle ombre minacciose di quelli che sono diversi da noi, c’è chi li considera sub-umani. Non ci accorgiamo che la sicurezza manca a loro, ai rifugiati che non trovano rifugio, ai disperati che vengono trattati come fastidiose pratiche di ordine pubblico, alle persone in affanno di cui non sappiamo né vogliamo ascoltare le storie, le pene, i desideri. I flussi migratori descrivono bene le ingiustizie di un mondo alla rovescia, scappano da Sud e da Oriente perché scappano dalle bombe o dalle torture o dalla miseria.
Dalle loro terre venivano un tempo quelli che noi abbiamo fatto santi, le loro madonne nere sono nei nostri santuari. Oggi anche San Nicola sarebbe chiuso in un centro di identificazione ed espulsione. Eppure ci dicono che dobbiamo difenderci, sono le icone che incarnano le nostre paure, sono le ombre del nostro egoismo. In verità, come sempre, gli stranieri sono per noi una speranza di salvezza. Ma fingiamo di non saperlo.
Loro perdono la vita in questo Mediterraneo, noi perdiamo il segno della nostra umanità. Servirebbe uno scatto della cultura e della politica, l’idea magari che un permesso umanitario è una decente risposta per i vivi e una parziale riparazione per i morti. Occorre reagire, fare qualcosa, non assuefarci al trionfo della morte. Prima che affoghi, nel mare di mezzo, ciò che resta di noi stessi.