«Sta calabrisella muriri e mi fa», il verso della popolare canzone s’addice alla malasorte elettorale del campo largo. L’epoca del populismo assistito e giustizialista non fa più presa sugli elettori. I dossier pieni di mance a scapito della spesa pubblica non fanno più effetto in una regione che ha cambiato pelle, seppure a macchia di leopardo. Oltretutto nelle sue contraddizioni economiche, sociale e antropologiche, la Calabria ha una tradizionale anima riformista e libertaria.
Dalle elezioni regionali nelle Marche e in Calabria il Partito democratico, guidato da Elly Schlein, essendo il principale partito dell’opposizione, dovrebbe trarre alcune conclusioni: sulle sconfitte, sull’astensionismo e sul rapporto fra politica e giustizia. In entrambe le competizioni il vero vincitore è stato il non voto: gli astenuti hanno superato di gran lunga i votanti: il 43,15%. È un segnale che impone una seria autocritica ai partiti, sintomo della crescente distanza fra governati e governanti. Uno dei fattori che alimentano l’astensione, soprattutto alle politiche, è la legge elettorale vigente, che di fatto priva gli elettori della possibilità di scegliere i parlamentari: le liste bloccate consentono alle segreterie di partito di nominare i candidati, lasciando agli elettori solo il compito di barrare il simbolo.
È una legge che andrebbe abrogata, sostituendola con una legge proporzionale con sbarramento e preferenze, di cui si parla da tempo, e con la possibilità di indicare direttamente sulla scheda i candidati alla Presidenza del Consiglio delle diverse coalizioni. A ciò si aggiunge l’erosione della centralità del Parlamento, svuotato dal ricorso frequente e improprio ai decreti-legge da parte dei recenti governi.
L’astensionismo nelle elezioni regionali ha poi un’altra chiave di lettura: il regionalismo, nato come ente di programmazione e legislativo, appare obsoleto e dovrebbe essere riformato dalla A alla Z. I presidenti sono diventati i «governatori», con un potere pressoché assoluto e, impropriamente, si sono appropriati del titolo. Negli Stati Uniti, essi guidano 50 entità federali; in Italia, le 20 Regioni hanno natura diversa e poteri limitati, seppure si siano ampliamento fuori misura, con lo scioglimento delle provincie.
Sul piano politico-giudiziario, le elezioni regionali hanno evidenziato due pesi e due misure. Nelle Marche, il candidato del centrosinistra, Matteo Ricci, ha ricevuto un avviso di garanzia alla vigilia del voto: il Pd non ha sollevato obiezioni, mentre il M5S ha preteso di esaminare gli atti prima di dare il via libera alla candidatura, dimostrando come passi con disinvoltura dal giustizialismo al garantismo quando gli conviene. Ben diverso l’atteggiamento avuto in passato con altri amministratori. L’ex presidente dell’Umbria, Catiuscia Marini, eletta nel 2010, indagata nel 2019 per la cosiddetta «Concorsopoli» nella sanità, fu costretta a dimettersi sotto la pressione della dirigenza nazionale del Pd, pur essendo poi assolta dall’accusa di associazione per delinquere. Restano in corso i procedimenti su ipotesi residuali, ma il dato politico è che il partito l’ha lasciata sola di fronte alla magistratura. Un altro caso emblematico è quello di Mario Oliverio, presidente della Calabria dal 2014 al 2020: non si dimise, ma non fu ricandidato a causa delle inchieste che lo riguardavano; nei processi è stato assolto, senza che il suo partito lo difendesse.
In Puglia, l’assessore allo Sviluppo economico, Alessandro Delli Noci, del movimento Con, fondato da Michele Emiliano, accusato di corruzione, si dimise da assessore e da consigliere regionale. Pur essendo il più votato nel collegio di Lecce, il Pd - o chi per esso - gli ha negato la candidatura alle elezioni. Ha ricevuto invece piena solidarietà da parte della destra: un caso - si dice - di «fuoco amico», da sinistra. Questi episodi mostrano l’ambiguità di un partito che si è spesso comportato come un centauro: mezzo giustizialista e mezzo garantista, abbandonando i suoi amministratori di fronte alle inchieste.
In Calabria, lo scenario è stato opposto. Il presidente Roberto Occhiuto, leader di Forza Italia e indagato per fatti precedenti alla sua elezione, ha reagito diversamente: ha accusato la Procura di accanimento, si è dimesso, ha sciolto l’Assemblea regionale, si è ripresentato agli elettori e ha vinto con quasi il 60% dei voti. Il «campo largo» guidato da Pasquale Tridico è crollato, mentre Forza Italia ha raccolto percentuali quasi berlusconiane. L’affluenza è rimasta ai minimi storici, ma il successo di Occhiuto indica che, nel Sud, conquista consenso chi dimostra di saper governare e di non farsi condizionare da indagini che solo le sentenze possono chiarire. È una lezione che il centrosinistra dovrebbe cogliere: la politica con la P maiuscola richiede coraggio, coerenza e un rapporto di fiducia con gli elettori, che non può essere sostituito da scorciatoie giudiziarie né da alibi ideologici.