Alla fine non un pezzo di pane è finito ai palestinesi, come ha detto il cardinale Pizzaballa. Eppure un modo c’era, passare gli aiuti a lui, pronto a farli arrivare a Gaza con l’aiuto del Patriarcato latino. Invece la Flotilla ha continuato ad andare avanti con un intento apparso più politico che umanitario: sfidare il blocco navale israeliano. Liberi di farlo, anzi per qualcuno opportuno. Ma allora bisognava dirlo. Dire che si voleva dimostrare come ancora una volta Israele avrebbe violato ogni legge internazionale, insomma si sarebbe confermato uno Stato fuorilegge. Come avvenuto. Ma purtroppo strumentalizzando la fame dei gazawi, già così strumentalizzati sia dal feroce progetto colonialistico di Tel Aviv sia dal non meno feroce giogo di Hamas. I gesti di vittoria da parte dei reduci della spedizione sono stati tanto fuori luogo quanto indelicati. E c’è chi sulla pelle dei gazawi cerca un Nobel più che offrire speranza.
Poi che il sentimento popolare a favore della pace si potesse, meglio dovesse, esprimere nelle grandi manifestazioni di questi giorni era necessario. Un modo di rimediare al tanto tempo in cui verso la tragedia palestinese ci eravamo girati dall’altra parte. Una indifferenza che sembrava aver smarrito ogni senso, ogni capacità di reazione, ogni pietà verso la morte di troppi. E che nel grande moto popolare si sia inserito uno sciopero generale, si può leggere come un obbligo di presenza di quel mondo del lavoro su cui non solo per Costituzione è fondata l’Italia. Ché se poi il pacifismo volesse essere incisivo non solo con le bandiere e i cori e gli slogan contro Israele, ora è l’occasione: premere su Hamas (più che dedicargli cartelli e cortei) perché accetti quel piano di Trump che almeno a una tregua potrebbe portare. Un pacifismo, insomma, che ricordi come nel molto poco immacolato Hamas non albergano solo presunte anime belle ma anche i tagliagole del 7 ottobre.
Perché il pacifismo non può essere solo in una direzione come spesso si dimostra. Un pacifismo fin troppo pronto a mobilitarsi contro i peccati dell’Occidente la cui libertà e democrazia glielo consente. Ma troppo sordo contro i tanti regimi in una divisione fra buoni e cattivi che risente di ideologia e di pregiudizio. Poco lo si è visto in campo verso un’altra guerra contemporanea in cui le atrocità hanno avuto meno tv pronte e meno indignati speciali nel descriverle e stigmatizzarle. In Ucraina i droni e i missili russi ammazzano ogni giorno soprattutto civili come purtroppo in tutte le guerre compresa quella di Gaza. E in una guerra in cui ventimila bambini (sempre i bambini) sono stati sottratti alle famiglie delle zone occupate e portati in Russia per essere «russificati». Ciò che significa privarli finanche della loro lingua per costruire esseri umani nuovi secondo la più spietata barbarie colonialistica. Una ingegneria genetica dell’orrore.
Nella Cambogia dei khmer rossi bastava avere gli occhiali per essere catalogati come istruiti nemici del popolo ed essere eliminati.
Il pacifismo unidirezionale si è fregiato in questi giorni anche di protagonisti autoeletti a maestri di etica. Un’etica inorridita se oltre che della strage di palestinesi si parla degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, come se fossero diversamente umani. Inseguita dalle luci della ribalta e dai primi piani soprattutto la signora Albanese, relatrice per l’Onu sulla situazione a Gaza, quindi rappresentante della comunità internazionale e non solo dei suoi convincimenti. Signora che bacchetta (ma perdonandolo per questa volta) un sindaco che accenna agli innominabili ostaggi mentre la onora con le chiavi della città. In una giostra di troppe chiavi della città assegnatele in toni hollywoodiani. Signora che abbandona una trasmissione tv in cui hanno l’ardire di nominare quella Giuliana Segre sopravvissuta all’Olocausto nazista. Tutto quanto estremizza invece, appunto, di pacificare. Invece di diradare l’incubo in cui tutti noi viviamo da troppo tempo.
Perché mai come in questo tempo servirebbero le parole disarmate e disarmanti invocate dal papa. A fronte di un panorama italiano tanto in campagna elettorale permanente da ascoltare più guerrafondai che pacifondai. E in cui il logoro slogan «piazze piene e urne vuote» è drammaticamente confermato dalle recenti elezioni nelle Marche e in Calabria. Una delusione per l’aspettativa di chi nei fiumi in piena di giovani sperava di vedere gli anticorpi di democrazie in grado comunque di reagire alla loro decadenza tra figli che non nascono e anziani assopiti. Una delusione per chi sperava di vedere barbagli di nuova coscienza civile e di smarrita fiducia nel domani. La sensazione è che la costruzione di un futuro diverso è ancora una volta rinviata.