TARANTO - «Mi dispiace mostrare queste immagini, ma di questo stiamo parlando: di Alessandro, morto in questo modo». Nell’aula deserta al quartiere Paolo VI di Taranto, sugli schermi appaiono le foto scattate durante l’autopsia di Alessandro Morricella, il 35enne operaio Ilva investito da una fiammata l’8 giugno 2015 e deceduto pochi giorni dopo per le ferite riportate. L’aria sembra fermarsi.
Il pm Francesco Ciardo parla piano mentre gli occhi dei pochi presenti si fermano solo pochi secondi su quelle immagini. «Alessandro è morto investito da materiale incandescente mentre era impegnato a svolgere il suo lavoro».
Una fiammata che diversi testimoni sfilati nel processo hanno definito «immensa» e durata «è sembrata durare un’eternità»: un getto uscito dal foro di colata della ghisa nel quale Alessandro era stato inviato a misurare la temperatura gli ha causato ustioni di secondo e terzo grado nel 90 percento del corpo che lo hanno ucciso in pochi giorni. In quattro ora il pm Ciardo ha riassunto il processo dal punto di vista dell’accusa e infine ha chiesto la condanna dei sei dirigenti finiti a giudizio: 6 anni di carcere per Massimo Rosini, ex direttore generale di Ilva spa e per l’allora direttore della fabbrica Ruggiero Cola, 5 anni di reclusione per il direttore dell’area ghisa Vito Vitale e il capo area Salvatore Rizzo. E ancora 3 anni di carcere per il capo turno di Morricella, Saverio Campidoglio, e tecnico del campo di colata Domenico Catucci. Tutti rispondo di cooperazione in omicidio colposo, ma a Rosini, Cola, Vitale e Rizzo, inoltre, i magistrati hanno contestato l’accusa di non adottato «adeguate misure tecniche ed organizzative, in particolare schermi protettivi o altri mezzi idonei - si legge nelle carte del processo - a tutelare l’incolumità dei lavoratori addetti alle operazioni di colata e di quelli che possono essere investiti da spruzzi di metallo fuso o di materiali incandescenti». Per gli inquirenti, insomma...