La distanza fra Bari e Asiago è ben più lunga di quella misurabile in chilometri. Alla lucentezza mediterranea del capoluogo pugliese si contrappone il freddo cupo dell’Altopiano dei Sette Comuni, gravido di memorie tragiche, quelle delle trincee in cui morirono nel gelo e nella solitudine i militari italiani del fronte più insanguinato della prima guerra mondiale. Sono «montagne ancora gravide di robe di soldati» afferma un personaggio importante de Il delitto della montagna di Chicca Maralfa. È Lilli Pertile, una donna che si candida quale contenitore vivente dei retaggi autoctoni. Ma per il luogotenente Gaetano Ravidà vi sono i segni di una battaglia molto più personale. Innanzitutto quella perduta con la moglie, scomparsa dalla sua esistenza e relegata in un altrove che dalla geografia peninsulare passa a quella che Vera Slepoj definisce geografia dei sentimenti, titolo di un suo famoso libro. Può farvi da succedaneo il rapporto ambiguo e segreto con Maria Antonietta Malerba, medico legale? Considerato che la lacerazione familiare lo ha staccato anche dalle due figlie?
Ravidà è doppiamente spaesato, nel territorio assegnatogli e nel dedalo interiore. Riflette: «L’amore di sua moglie, “la tua ex moglie” precisò a sé stesso, era fatto di gesti imprevedibili e quella donna era tutto il contrario di una verità assoluta».
Come invece necessita di venire portata allo scoperto quella riguardante la morte dell’individuo mummificato che viene reperito in una cava abbandonata. Ravidà si muove sotto l’egida di «un sistema giudiziario talvolta fallace nella ricerca della verità con le indagini prima ancora dei processi a fare da grancassa in un teatro di ombre infami.»
Già: il delitto della montagna oscilla fra il presente e il passato della zona, segnato dalla tragedia bellica narrata con straordinaria dolcezza e implacabile realismo da Ermanno Olmi in Torneranno i prati. Peraltro, la Maralfa omaggia scopertamente il grande regista.
Ravidà però ha incombenze più pressanti. Nei giorni successivi compaiono altri due cadaveri, stavolta privi del manto temporale offerto dalla mummificazione. Per di più, apparentemente senza nessi tra di loro. Il che complica la prassi investigativa. Ravidà è costretto a scavare nel nucleo al calore bianco della comunità locale, del tutto differente da quella di provenienza dell’ufficiale. Alla latitudini mediterranee, anche il male affiora sotto i raggi perpendicolari della luce solare. Nel nord-est tutto cova sotto strati di tetra riservatezza che è la variante dell’omertà. Non a caso si parla di Mafia del Brenta, e quest’ultima non tarda a profilarsi della spirale delittuosa che si snoda sull’altopiano.
Chicca Maralfa, con questo secondo caso del suo Gaetano Ravidà, fa crescere il protagonista proprio perché gli complica il plot. Ed effettua un lavoro di documentazione sullo sfondo, ancora più ammirevole in una scrittrice che, simile al suo luogotenente, viene ad altri paesaggi. Questo si spiega perché il thriller è uno stato della scrittura, non vincolato alle ambientazioni. Qui arricchito dalla citazione di Mario Rigoni Stern, antesignano di temi ecologici estranei agli esibizionismi e alla ricerca ossessiva di visibilità mediatica.
Come lui, la Maralfa rifugge ogni spettacolarità. Nel suo ambito, cerca invece di conferire alla dinamica della suspense una misura interamente nuova, che è quella del parallelismo fra quanto si dipana all’esterno e i moti interiori di un segugio niccianamente umano, troppo umano.
Chicca Maralfa, «Il delitto della montagna» (Newton Compton, pp 288, euro 12,90)