Installata nella cucina di un piccolo ristorante di Chicago, The Bear apparecchia l’incontro tra il junk food e la gastronomia. Perché Carmelo Berzatto, chef prodigio impiegato in un celebre ristorante stellato di New York, ritorna a casa per gestire la sandwicheria in perdita del fratello, suicida senza redenzione. I clienti attendono alla porta mentre Carmy prova a fare ordine in un business pieno di debiti e popolato da impiegati refrattari a qualsiasi regolamento. Jeremy Allen White, volto d’angelo e occhi blu traslucidi, interpreta un genio in burn-out, habitué delle brigate immacolate imbrattate di insulti, umiliazioni e abusi morali, come apprendiamo in un flashback. Per farsi ascoltare Carmy deve gridare più forte del suo team riottoso. Le frizioni dettano la scrittura della serie, il suo linguaggio, la sua cadenza. Montaggio serrato, camera in ebollizione, allarmi che suonano e coperchi che saltano, gli episodi si accumulano come fatture da pagare. Ma contrariamente al suo protagonista, The Bear non è prigioniero del suo tumulto e sa ritagliarsi delle pause, un break sigaretta che riposa su lunghi piani fissi, offrendo ai personaggi la possibilità di ruminare pensieri e di esistere altrove che nell’iperattività.
La serie di Chistopher Storer denuncia con Boiling Point il culto del management duro e le violenze psicologiche incassate nelle «mense» stellate. L’immaginazione degli sceneggiatori si ferma al fantasma dell’ordine e della disciplina ma le brigate sono realtà. Esperienza immersiva, concentrata sui fornelli e in onda su Disney+, The Bear accende i fuochi e mette in pentola la seconda stagione. Sempre a Chicago, sovente dimenticata dall’industria cinematografica. Nella battaglia della verticalità, Chicago batte NY e resta pioniera, superba, senza pietà.