TARANTO - «Paolo Vuto non ha premeditato l’omicidio di Mimmo Nardelli e non voleva la sua morte». Prende la parola per ultimo, in aula Alessandrini, l’avvocato Fabrizio Lamanna che difende il 44enne accusato di aver armato la mano del figlio Aldo Cristian per compiacere la volontà di Tiziano Nardelli, difeso dall’avvocato Luigi Danucci e ritenuto il mandante dell’uccisione del fratello, freddato con due colpi di pistola sotto la sua abitazione di via Cugini, il 26 maggio 2023.
Nel corso dell’udienza di ieri mattina dinanzia alla corte d’assise presieduta dal giudice Filippo Di Todaro e a latere il giudice Loredana Galassp, il difensore Lamanna ha condiviso le conclusioni dei colleghi che prima di lui hanno tentato di scardinare l’aggravante della premeditazione e del metodo mafioso, sostenuta dall’accusa.
La sua tesi è che il 44enne avesse sì armato il figlio, ma come reazione a una escalation di avvertimenti e minacce ricevute proprio dalla vittima.
Era stato Thomas, il figlio della vittima, secondo la difesa, ad alimentare il clima di ostilità e paura a cui la famiglia Vuto decise infine di reagire prima che quelle intimidazioni potessero concretizzarsi in una carneficina ai loro danni. Non ci sarebbe stata nessuna pianificazione, insomma, per la difesa, o un movente economico, ma il tentativo fallito di mettere pace tra Tiziano e suo fratello da parte di Paolo Vuto e la conseguente resa di fronte alla forza criminale espressa da Mimmo Nardelli nei suoi confronti, nei giorni precedenti all’uccisione, che sapeva di dover contrastare e prevenire.
Ed è in quel clima crescente di tensioni che, per l’avvocato Andrea Maggio, Francesco “Kekko” Vuto aveva deciso di accompagnare il cugino Aldo dopo aver assistito all’incontro con Thomas avvertendoli che il padre girasse armato e fosse sulle loro tracce.
Con questo presupposto, afferma in aula Andrea Maggio, Kekko si mette alla guida della moto «con l’impulso di reagire alle minacce contro suo zio, da cui desiderava approvazione, prevedendo il rischio ma non avendone coscienza».
Il difensore sostiene, insomma, che Kekko non avesse riflettuto sulle terribili conseguenze a cui si stava esponendo, pur accettando il rischio degli esiti finali di quella spedizione. A confessare quell’omicidio era stato poi, come detto, Aldo Cristian, che il difensore Salvatore Maggio ha definito «un 20enne nato nella sfortuna di avere un modello negativo che riteneva per lui un esempio e un totem, un idolo da compiacere». Secondo la difesa il nome del suo assistito non emerge mai dalle intercettazioni, se non 3 ore prima del crimine, né viene mai a conoscenza nei mesi precedenti dei contrasti del padre con l’uomo che ucciderà quello stesso giorno. È solo quando lo raggiunge, infatti, che scopre il retroscena: Mimmo Nardelli si sta armando contro di loro e così «ha paura per sé e per il padre. Sarà quello il momento in cui viene armata la sua mano». Un destino segnato, sostiene il difensore, quello del 20enne, che deve rispondere anche del tentato omicidio di Cristian Troia assieme a Kasli Ramazan e maturato, secondo i pm Milto Stefano De Nozza della Dda di Lecce e Francesco Sansobrino della procura ionica, come punizione esemplare per lo scambio di messaggi con la ex fidanzata di Aldo Cristian. Un agguato che per il difensore Maggio aveva il solo fine di intimidire e non, invece, ammazzare, come emergerebbe anche dalle intercettazioni.
L’avvocato Maggio si è infine rivolto alla Corte d’Assise invocando il riconoscimento del dolo eventuale, l’esclusione delle aggravanti e l’attenuante della provocazione e chiedendo perciò il minimo della pena per il suo assistito.