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Omicidio di via Cugini, a Taranto è guerra sulle intercettazioni

 
Francesco Casula

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Francesco Casula

 Omicidio di via Cugini, a Taranto è guerra sulle intercettazioni

Grande attesa per la decisione del Riesame. La difesa contesta gli «omissis» negli atti depositati e la natura mafiosa del delitto sostenendo che si tratti di una vicenda familiare

Sabato 29 Luglio 2023, 13:05

TARANTO - Arriverà nelle prossime ore la decisione del tribunale del Riesame che dovrà scegliere se confermare o meno la custodia cautelare in carcere per i cinque indagati arrestati dai poliziotti della Squadra mobile di Taranto per l'omicidio di Mimmo Nardelli, avvenuto il 26 maggio in via Cugini, e il tentato omicidio di Cristian Troia commesso la notte tra il 12 e il 13 aprile in via Pio XII.

Il collegio di giudici dovrà valutare i ricorsi presentati dai difensori che hanno chiesto l’annullamento dell’ordinanza firmata dal gip di Taranto Francesco Maccagnano e poi confermata dal gip di Lecce Marcello Rizzo che hanno confermato la ricostruzione compiuta dai pubblici ministeri Milto De Nozza della Direzione distrettuale Antimafia di Lecce e Francesco Sansobrino della procura ionica.
Com’è noto in carcere sono finiti Paolo Vuto, il 44enne arrestato con l’accusa di essere l’organizzatore dell’omicidio, Tiziano Nardelli, fratello della vittima e per gli inquirenti il mandante dell’assassinio, il 20enne Aldo Cristian Vuto, figlio di Paolo ritenuto l’esecutore materiale del delitto, il 23enne Francesco Vuto, cugino di Paolo, indicato come conducente dallo scooter su viaggiava il killer, e il 23enne Ramazan Kasli, tarantino di origine albanese che insieme a Paolo e ad Aldo Cristian Vuto, deve difendersi dall’accusa del tentato omicidio di Troia.

Dinanzi ai giudici salentini, ieri mattina il collegio difensivo, composto dagli avvocati Luigi Danucci, Salvatore e Andrea Maggio, Fabrizio Lamanna, Valerio Diomaiuto e Daniele Lombardi, ha sollevato una serie di motivi per provare a scalfire l’ordinanza che aveva portato in carcere i cinque. Sull’omicidio la difesa ha sostenuto innanzitutto che non si trattava di un’esecuzione mafiosa, ma che il delitto sarebbe maturato in ambito familiare: secondo quanto ricostruito dai poliziotti guidati dal vice questore Cosimo Romano, il movente è collegato alla decisione di Mimmo Nardelli di liquidare la cooperativa di famiglia e suddividere la proprietà con gli altri fratelli, ma la scelta della vittima avrebbe scatenato la reazione di Tiziano Nardelli e Paolo Vuto che avrebbero utilizzato anche «per finalità di riciclaggio del denaro di provenienza delittuosa». E soprattutto per gli inquirenti il gruppo guidato da Vuto è un’associazione mafioso che sta provando a crescere: negli atti dell’indagine partita a novembre che ha permesso di fare luce sull’agguato mortale, nei confronti del 44enne e di altri è contestata l’accusa di «416 bis», appunto l’associazione mafiosa. Il giudice Maccagnano che ha inizialmente convalidato i fermi, ha spiegato che in realtà quell’omicidio era «un chiaro messaggio alla comunità tarantina e, soprattutto, agli esponenti della malavita locale: chiunque avesse osato affrontare Vuto Paolo e i suoi sodali sarebbe incorso in punizioni esemplari».

L’avvocato Danucci, inoltre, ha contestato alcuni decreti che autorizzavano le autorizzazioni: il legale di Tiziano Nardelli ha spiegato che nei documenti messi a disposizione della difesa ci sarebbero troppi «omissis» e quindi impediscono agli avvocati di poter avere piena cognizione della vicenda.

Il pm De Nozza, tuttavia, ha ribadito che quelle parti oscurate sono coperte da segreto istruttorio poiché appartengono all’inchiesta madre nei confronti del gruppo che è ancora in corso. Come i contatti tenuti dal 23enne Francesco Vuto, con un detenuto verso il quale nutre una sorta di venerazione. In una conversazione, «Kekko», promette «un pensiero» in denaro da consegnare al detenuto che lo ringrazia e gli offre la sua benedizione: «Lo sai che ti voglio bene... qualsiasi cosa, senti in dovere a fare il nome mio». Una sorta di protezione che l’uomo in carcere offre insieme alla garanzia della forza: «Io sono cresciuto Francè, ora mi sono fatto grande e tengo esperienza assai». E in un’altra conversazione Kekko vuole ostentare la sua forza: «non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno» e il detenuto gli spiega perché: «Questo è normale: il sangue tuo Vuto è, non è un sangue a occhio».

Per l’antimafia, è evidente, che quel gergo e quelle azioni appartengono a una storia criminale che il gruppo intende non solo rispolverare, ma imporre e far rispettare ad altre consorterie del territorio. Nelle ore precedenti al delitto, in realtà, Paolo Vuto sembrava aver trovato un accordo con la vittima, ma nel tardo pomeriggio di quel 26 maggio, dinanzi al bar «La Voglia Matta» un ultimo aspro confronto avrebbe spinto il gruppo a organizzare in poco tempo il delitto fino al messaggio inviato dal figlio dopo il delitto: «Appena si è messo il casco… ce lo siamo levati di mezzo».

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