MANDURIA/LECCE - «Dopo avermi minacciato telefonicamente, siamo andati al bar Bunker e lì mi ha aggredito con un coltello: sono riuscito a disarmarlo e poi l'ho accoltellato». È quanto, in estrema sintesi, ha raccontato al pm Milto De Nozza il 19enne Vincenzo Antonio D'Amicis, uno dei tre manduriani arrestati per l'omicidio di Natale Nasser Bathjiari, 21enne leccese di origine bosniaca trovato morto nelle campagne di Manduria nella notte tra il 22 e il 23 febbraio scorso, ucciso secondo l'accusa perché aveva osato sfidare la famiglia Stranieri, il clan mafioso che da generazioni comanda e impera nel territorio messapico. In collegamento telematico dal carcere campano in cui è detenuto, il 19enne, difeso dagli avvocati Armando Pasanisi e Franz Pesare, si è assunto tutta la responsabilità della vicenda e ha provato a scagionare gli altri due amici: il 22enne Domenico D’Oria Palma e Simone Dinoi anch’egli 22enne. Al magistrato ha raccontato che quella sera ha incontrato il giovane che da tempo lo minacciava telefonicamente per ottenere il pagamento della droga che il gruppo di Manduria aveva acquistato dai leccesi qualche tempo prima. D'Amicis ha svelato che in realtà buona parte dello stupefacente lo avevano consumato proprio loro e il denaro non c'era: un uso cronico di cocaina che gli avrebbe, secondo l'indagato, fatto perdere la lucidità in quei momenti. Nel bar Bunker, secondo il 19enne, il suo rivale avrebbe tirato fuori un coltello e avrebbe iniziato a colpirlo: al pm ha mostrato delle ferite alle braccia su cui ora saranno effettuati accertamenti per capire se quelle ferite c'erano o meno al suo arrivo in carcere. In quei momenti, però, sarebbe riuscito a disarmare l'avversario e a colpirlo. Solo in quel frangente sarebbe sopraggiunto D'Oria Palma e insieme avrebbero poi contattato Simone Dinoi.
Un tentativo, insomma, per scagionare i due amici e provare a spiegare alla magistratura che non si è trattato di un omicidio premeditato, ma di una reazione: una strada quasi disperata per provare a evitare gli ergastoli che incombono sui tre giovani. Anche gli altri due indagati, nei loro interrogatori, hanno sostanzialmente raccontato di non aver preso parte all'assassinio, ma di aver aiutato il 19enne a disfarsi del corpo: un contributo che avrebbero offerto per paura delle reazione di D'Amicis, nipote di Vincenzo Stranieri, storico boss di Manduria tornato a casa dopo quasi 30 anni di carcere. A sostegno della loro estraneità al delitto, i due hanno evidenziato di aver rifiutato l'ordine del 19enne di uccidere anche le ragazze che lo avevano accompagnato a Manduria.
Eppure, stando a quanto emerge dalle telefonate raccolte dai poliziotti della squadra Mobile guidati dal vice questore Cosimo Romano, i due avrebbero avuto un ruolo attivo dal loro arrivo fino al momento in cui avrebbero abbandonato il corpo agonizzante del 21enne vicino al cavalcavia sulla strada che unisce il comune Messapico a Oria. In quei 18 minuti, stando alle accuse della Direzione distrettuale Antimafia, anche loro avrebbero infierito sulla vittima già pugnalata e sanguinante.