Manager di lungo corso, Franco Bernabè, dopo essere stato amministratore delegato di Eni e Telecom Italia, dal 21 luglio 2021 è presidente del consiglio di amministrazione di Acciaierie d’Italia, la società partecipata da ArcelorMittal e Invitalia che gestisce in fitto il complesso aziendale ex Ilva. Rispondendo alle domande della Gazzetta, il presidente Bernabè parla della fabbrica e del complicato rapporto con Taranto.
L'ex Ilva, fiaccata dalle inchieste e dai sequestri della magistratura oltre che dalle difficoltà di mercato, ha un futuro?
L’acciaio primario ha futuro in Italia, oltre a l’Ilva non c’è nessuno che lo faccia. Il rottame in prospettiva con la crescita della domanda internazionale, sarà sempre più caro e più difficile da reperire. L’acciaio primario avrà, invece, grande domanda e interesse, anche perché l’acciaio secondario finirà per contenere altri metalli che lo renderanno meno appetibile, specie per le produzioni di qualità. Il futuro c’è per l’acciaio primario e di conseguenza per chi lo produce. Siamo stati molto dipendenti per l'acciaio dalla Russia e dall’Ucraina ma la Russia per via dei blocchi alle esportazioni e l’Ucraina per i danni prodotti da una guerra che non si sa quando finirà, non saranno nelle condizioni di fornirci acciaio, anzi sarà l’Ucraina ad aver bisogno del nostro acciaio. L’acciaio primario fatto dall’Ilva dovrà, per avere mercato, essere sempre più verde, prodotto con tecnologie sostenibili ma gli spazi ci sono, vanno fatti gli investimenti necessari.
Come, e se, cambierà, dunque, la produzione di acciaio a Taranto?
Andiamo verso la produzione a Taranto di acciaio da forno elettrico alimentato non da rottame ma da Dri, un semilavorato siderurgico contenente prevalentemente ferro metallico ottenuto a partire da pellet di minerale ferroso trattato per mezzo di monossido di carbonio e idrogeno. Dunque serviranno nell’acciaieria tarantina impianti che utilizzano Dri, prodotto a Taranto, alimentato a pellet che verrà prodotto fuori, a bocca di miniera. Quello di Taranto sarà un acciaio avanzato e nel tempo l’agente riducente del pellet sarà l’idrogeno, diciamo non appena sarà possibile disporre di una produzione in quantità sufficiente e a prezzi concorrenziali. In questo la Puglia ha un indubbio vantaggio competitivo grazie alle energie rinnovabili che produce in grandi quantità.
Ritiene sufficienti le risorse disponibili per cambiare il paradigma produttivo dell'acciaieria tarantina?
Intanto le risorse dipendono dal mantenimento dell’attività dell’Ilva. Se chiude o si ferma, le risorse non ci saranno. I capitali devono venire in primis dalla produzione. Servono 5-6 miliardi di investimenti, non comprendendo le energie rinnovabili e l’idrogeno, e vanno alimentati dalla cassa generata dalla stessa Ilva. Oggi ci avviciniamo a una disponibilità di circa 3 miliardi di euro, sommando il miliardo di euro stanziato per Dri Italia, il miliardo di euro per Acciaierie d’Italia, i 750 milioni dell’ultimo decreto. Se l’Ilva mantiene la produzione, si può fare, potrebbero servire altre risorse nel lungo periodo ma si può fare.
Come valuta la richiesta di nazionalizzare l'ex Ilva proveniente da più parti?
«Nazionalizzazione è un termine ambiguo. Lo Stato non credo voglia imbarcarsi nel gestire un progetto di queste dimensioni, lo ha detto con chiarezza il ministro Urso. Lo Stato deve garantire l’impulso e il coordinamento a un progetto ciclopico, dalla complessità enorme.
Come ricostruire il rapporto tra fabbrica e città?
Si deve ricostruire un rapporto di fiducia, la vita della fabbrica è essenziale per la città, non solo e non tanto per i posti di lavoro ma perché se la fabbrica muore si crea un vulnus inguaribile per la città. Solo una fabbrica che investe può orientare un processo di crescita della comunità e mitigare la sua presenza. Altrimenti il rischio che si corre è quello di lasciare un cratere, per il quale i soldi per sistemarlo non ci saranno mai, servirebbero 7-10 miliardi di euro. La fabbrica deve vivere, solo vivendo può rimediare ai problemi che l’industrializzazione ha provocato. Bisogna condividere un percorso, serve uno sforzo reciproco, indispensabile, perché non ci sarebbe cosa peggiore che lasciare la fabbrica così come sta.