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Taranto, generazione cinque euro: storie di tre ragazzi alle prese con impieghi sottopagati

 
Claudio Frascella

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Claudio Frascella

Taranto, generazione cinque euro: storie di tre ragazzi alle prese con impieghi sottopagati

Cinque euro è il compenso giornaliero di ciascuno dei tre ragazzi che ci racconta la sua storia: chi a lavare le scale, chi a fare la cameriera

Venerdì 01 Aprile 2022, 11:44

Generazione cinque euro. Altro che il titolo di Incorvaia e Rimassa, ispiratore del film “Generazione mille euro” diretto da Massimo Venier, il regista preferito da Aldo Giovanni e Giacomo dalla Gialappa’s. Qui, purtroppo, c’è poco da ridere. Taranto offre poche occasioni di lavoro, specie ai giovani. Se questi non proseguono negli studi, affrontano corsi universitari, prospettive ridotte al lumicino.

Nomi di fantasia, ma storie purtroppo vere, una dietro l’altra. I ragazzi che sono ancora sul mercato, a condizioni meno svantaggiose, chiedono una privacy al minimo sindacale. Orari da non crederci: lavoro da cameriera in un ristorante, dalle sette del mattino all’una dopo la mezzanotte; su e giù per le scale, dalle sei del mattino a mezzogiorno. Non è proprio quello che, si dice, sia una passeggiata di salute. Per cinque euro o, in alternativa, un pacchetto di sigarette. Di solito, il motivatore senza scrupoli fra le labbra ha sempre la stessa frase: «Meglio che startene a casa, a fare niente!». Coraggio da dieci e lode, magari perché quei ragazzi che stanno “senza far niente” non sono i suoi figlioli.

E, allora, cinque euro. Compenso giornaliero di ciascuno dei tre ragazzi che ci racconta la sua storia di lavoro sottopagato. Chi a lavare le scale, chi a fare da cameriera in un ristorante, chi, infine, in una attività di gastronomia. Da perderci il sonno, ma anche chili. «Venti in due anni», dice Valentina, collaboratrice in un esercizio che prepara primi e secondi da asporto. «Non dormivo la notte, per gli orari e il trattamento cui ero sottoposta; poi, le umiliazioni quotidiane, nelle parole e nei gesti: insistevo però, volevo dimostrare ai miei genitori che il lavoro non mi nauseava, che pur di sentirne l’amaro sapore, avrei accettato qualsiasi tipo di trattamento». E gli amici. «Bravi a dirmi di abbandonare, perché non si può accettare un trattamento simile: ma come fai? Non c’erano e non ci sono alternative, dunque bere o affogare».

«A casa, senza un piano B, se non lo studio portato a compimento; proseguire o trovare un’alternativa», confessa Aldo, impegnato per mesi in un’attività che si occupava della pulizia di alcuni condomìni sparsi per la città. «In giro poco e niente, allora, quella ditta di pulizie: non devo pagare lo scotto del noviziato, cosa vuoi che sia tenere una scopa fra le mani, versare detersivo e acqua in un secchio, mescolare il tutto e spezzarsi la schiena a strigliare gradini e pianerottoli, talvolta in stabili senza ascensore: una vitaccia; il tutto, sei giorni a settimana, dal lunedì al sabato, alla modica cifra di duecentocinquanta mensili; quei soldi, quando me li davano tutti insieme, in biglietti di taglio medio, per far sembrare il tutto una cifra onorevole: chi ti consegnava quella misera somma lo sapeva e aveva l’espressione di chi in quel momento ti stava quasi arricchendo».

E al ristorante, niente orari. «Patti chiari, diceva il ristoratore: qui si sa quando si entra, non si sa quando si esce…». Bel coraggio anche questo tipo. «Ma andava così», spiega Antonella, con tanto di magone. Avrebbe voluto ribaltare i tavoli, far volare le posate, in quei momenti mandare al diavolo il datore (parolone). «Ho resistito due anni, dalle sette del mattino a dopo la mezzanotte, quando andava bene, altrimenti si chiudeva anche più tardi». E le mance? «Altra storia: un giorno seguii un tavolo con una cinquantina di persone, lascio immaginare il lavoro, l’andirivieni dalla cucina; piatti diversi fra loro, farli arrivare nei tempi e nei modi giusti; fine serata: i presenti lasciano sul tavolo un euro a testa, cinquanta euro complessivi di mancia; arriva il titolare, li raccoglie, li prende in custodia: “Poi li metto insieme con le altre mance, nel salvadanaio del personale”; mai rivisti quei soldi, né io, tantomeno i miei colleghi».

Valentina, che non fa più parte della “Generazione cinque euro”, raccontarne altro ancora. «Provo un certo imbarazzo – dice – se penso alla viglia e alle festività, quando il titolare faceva una sorta di appello: “Chi non ha impegni con le famiglie, può venire qui, a lavoro, il giorno di festa lo trascorriamo insieme”; come se l’ambiente di lavoro fosse una famiglia, sarebbe autorizzato a pensare qualcuno, invece niente di tutto questo: all’esterno del locale compravo un tramezzino e una bottiglietta d’acqua in una di quelle macchinette che fanno servizio ventiquattr’ore al giorno, con il titolare che recitava quasi la parte dell’offeso per quella mia scelta: quando un giorno mi disse di prendermi qualcosa da mangiare fra quanto rimasto in cucina, quasi mi rimbrottò a causa della sola melanzana scelta: “La conosci la roba buona!”. Volevo sprofondare, lo avessero saputo i miei genitori… Ecco, i miei venti chili persi appartengono quel periodo: se lo raccontassi in giro, tranne i “miei”, nessuno mi crederebbe».

«Un collega ci accompagnava con un furgoncino da un condominio all’altro», ricorda invece Aldo. «Con il dovuto rispetto per chi fa il mestiere più antico del mondo, mi sembrava di essere una prostituta: il conducente si fermava nel furgoncino, fumava una, due sigarette e, alla fine, si assicurava che avessimo fatto bene il nostro lavoro: così, tutte le mattine, sei giorni a settimana, dal lunedì al sabato, fino a quando non ce l’ho fatta più e mi sono dimesso». Anche la “liquidazione” da romanzo. Il titolare dell’impresa di pulizie: «Mi dispiace, ma sai quanti ne trovo che stanno a casa, senza far nulla, che aspettano solo una chiamata?». «Cosa rispondi a uno che ti dice così – la reazione composta del ragazzo – e non ha la coscienza di provare a raddoppiarti un seppur misero compenso?». Conclude Aldo. «E’ così che va, purtroppo storie simili alla mia e di altri ragazzi come me, ce ne sono, basta avere il tempo di cercarle e la voglia di scriverle. Naturalmente dopo che uno abbia avuto il coraggio di raccontarle».

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