Sono passati cinque anni dalla morte di Johnny Hallyday, leggendario rocker francese, a cui Netflix dedica una serie documentaria che rintraccia la sua giovinezza, il debutto rock, gli eccessi, gli amori consumati con la droga e il desiderio ‘mai appagato’ di essere riconosciuto. Rinunciando a critici e incensatori, abbonati alle lodi o alla psicanalisi spiccia, Alexandre Danchin e Jonathan Gallaud lasciano la parola a Johnny. I due autori firmano Johnny Hallyday: una leggenda del rock e accomodano il loro idolo al centro della scena perché si racconti attraverso le interviste accumulate nel corso della carriera.
Il risultato è un misto di candore e franchezza che inciampa nelle bugie. No, Hallyday non ha mai stretto la mano a Elvis Presley, ispirazione musicale e mitica del suo repertorio, ma è vero che Charles Aznavour credeva nel suo talento e contribuì a costruire la sua immagine. Tra brani di concerti e riff di chitarra, la serie funziona coi puristi e coi neofiti. Il pubblico più giovane potrà misurare la dimensione romanzesca dell’ultimo mostro sacro dello show-biz francese. L’eloquio disordinato di Hallyday commenta la sua straordinaria epopea, l’esplosione negli anni Sessanta e poi l’implosione negli anni Settanta, le sue vette e i suoi scacchi artistici. Alla sua voce, si alternano fuori campo quella di Line Renaud o Nathalie Baye, testimoni di una longevità mitica. La maschera (ri)scolpita che aveva negli ultimi anni cede il passo al garçon dal carisma radioso. Ma dietro lo sguardo azzurro, la serie scopre l’uomo impenetrabile e ferito dall’abbandono dei genitori, l’uomo che brucia le tappe, che trionfa, sbanda, si perde, si ritrova. Cinque puntate per cinque decenni che trasformarono «l’idolo dei giovani» nel santo patrono della canzone francese.