Un garofano rosso che non conosce sfioriture, centinaia di biglietti scritti dai fedeli che passano a donare i palpiti più urgenti dei loro cuori sacri alla teca posta all’ingresso del santuario, tra svolte che immettono ad antichi filari e casupole tinte di un bel rosso brunito o di un verde acqua così evocativo e che sembra riavvitare quei meccanismi novecenteschi così simili a una macchina del tempo diffusa, vasta quanto una contrada, un paese, un angolo di sud. Nelle mattinate di queste prime giornate di marzo, sono tornata a fare visita ad uno dei gioielli del nostro patrimonio architettonico e paesaggistico: il Santuario dell’Annunziata a Squinzano. A colpirmi, una volta varcata la soglia che immette al suo interno, è sempre quel coro ligneo dipinto a mano che precede l’ingresso e la visita guidata nelle stanze che furono di Maria Manca. E’ un gioiello, un promemoria dedicato a quella bellezza che possiamo cercare e trovare facendo dei viaggi di ritorno nei luoghi che crediamo di conoscere meglio. E questo tipo di viaggi sono sopralluoghi emotivi, spostano la nostra attenzione e la allenano alla messa a fuoco di quel che resiste ai sorpassi del tempo.
A colpirmi è sempre la motivazione profonda, la tenacia, l’ispirazione e in una parola la fede che spinge alcuni esseri umani a perseguire un progetto visionario. La Chiesa dell’Annunziata, nello specifico, fu eretta a partire dal 1618 dopo che, come ho sempre sentito raccontare da mio nonno quando ero bambina e stando alla tradizione, un garofano passò da mani divine a mani terrene. I pellegrinaggi verso questo luogo cominciarono verso la metà del XVII secolo e si raccontano molti aneddoti. Fra i più noti quello che riporta l’estasi di fra Giuseppe da Copertino, divenuto poi santo. Dietro l’altare maggiore, furono costruiti due vani, un loggiato e un cortile col porticato e la cisterna al centro, due stanze servivano ai pellegrini per riposare durante le grandi affluenze devozionali.
Dopo l’elezione a santuario, nel 1971, questo resta uno di quei luoghi dalla forza magnetica che ancora oggi racconta la storia e la tenacia di Maria Manca e del fiore simbolo del dono ricevuto. Su questi presupposti, mi piace pensare che i santuari siano luoghi in cui tornare non solo a chiedere, ma soprattutto a ringraziare la vita che ci ha dato tanto e di nuovo la terra che incomincia a risvegliarsi merlettando alberi e nuove forme di pellegrinaggio interiore.