Volante, imbarazzante, stupefacente: è la scultura dell’elefante spaziale di Salvator Dalì, un’opera catapultata dall’alto dei cieli che con le sue zampe da ragno fluttua all’imbocco di Via San Biagio, nel cuore del centro storico di Matera. Pare che l’opera sia tratta dal quadro del 1938, «La tentazione di Sant’Antonio», nel quale un elefante trasporta un obelisco attraverso il deserto egiziano come simbolo del progresso e della tecnologia nel mondo moderno. Con la sua stazza monumentale, che vuole ispirare grazia e leggerezza, io penso che la scultura elefantiaca potrebbe sembrare Dumbo se avesse orecchie più grandi per volare.
Ogni volta che trapasso sotto i suoi pesanti obelischi mi chiedo quanto progresso sia stato raggiunto nella nostra comunità, abituata ad avere ormai Dumbo come animale culturale monumentale museale, che campeggia lì, in bella mostra, come una star di Instagram. Mi immagino gli obelischi, segno di potere e dominio, ed è come se volessero simboleggiare l’egemonia culturale, mentre l’elefante volante diventa sfondo per selfie, luna park per bambini, paradigma della persistenza degli opposti che devono convivere.
Senza un perché, Dumbo sta lì, adottato nel paesaggio culturale di Matera. Non sappiamo se dialogare ogni giorno con questa “opera d’arte” possa fare bene ai nostri neuroni, se ci aiuta ad avere un’altra prospettiva di come abitare la cultura, se giovani e anziani conoscono le sue origini ambigue ed enigmatiche, la sua identità, il suo percorso che si incrocia ogni giorno con il nostro.
«Originale, certificato, autentico, come le altre sculture tratte dai dipinti», afferma la Dalì Universe, l’elefante spaziale se ne sta lì, tirato verso il cielo e aggrappato alla terra e sembra non volersi schiodare più da quel crocevia affollato di turisti ignari. Come un trampoliere da circo, sprigiona un’aurea po’ «kitch«, un po’ «fake», e sotto i riflettori si accende la posizione della Fondazione Dalì che non ammette la riconducibilità della scultura al maestro.
Ogni volta che passo da lì, o scrollo la bacheca di qualche abitante culturale che commenta piccato l’opera immortalata nei pixel di Meta, penso a quanto sia surreale la contesa, lo scollamento con la realtà, con la comunità, la sua estraneità al contesto, perché l’arte pubblica non è degli artisti ma delle persone.
Tuttavia sono sicura che il genio egocentrico di Dalì avrebbe amato vedere il suo elefante occupare lo spazio senza freni inibitori, quasi a voler liberare il potenziale immaginativo dell’inconscio collettivo, con l’intento surrealista di arrivare ad uno stato conoscitivo oltre la realtà, in cui veglia e sonno sono entrambi presenti. Soprattutto il sonno culturale che ci fa sognare gli elefanti che volano, proprio come Dumbo che, si, può volare. Allora vola Dumbo, vola, portati via, in un’altra città d’arte, o torna a casa tua. Fai presto