Passi pure che il giudice del lavoro non ha accolto la tesi del licenziamento discriminatorio, deciso al contrario, secondo quanto sostenuto ricorrenti, ma non condiviso dal Tribunale, per punire un look piuttosto estroso (capelli colorati, piercing, tatuaggi) della lavoratrice. Ciò che davvero non va giù alla donna, è piuttosto quella condanna alle spese per tremila euro. Una cifra corrispondente a tre stipendi che, tra l’altro, da mesi, non percepisce più. Carla (nome di fantasia) è una estetista di 32 anni. Poco più che ventenne ha iniziato a lavorare per un centro estetico nel cuore del centro murattiano. Il contratto part-time diventa a tempo pieno e indeterminato nell’o t t o b re 2009. Per anni la vita nel centro prosegue tranquillamente tra manicure, pedicure, massaggi, cerette, trattamenti viso e corpo. Nei box dove le clienti vengono coccolate, tra un pettegolezzo e una confidenza, accade qualcosa. Agosto 2102. Carla, ed è un fulmine a cielo sereno, viene sospesa per sei giorni.
La sanzione disciplinare scatta a causa di presunte frasi ingiuriose che l’estista, alla presenza di alcune clienti, avrebbe rivolto gettando discredito sulla onorabilità e la professionalità della titolare. La lavoratrice non ci sta. Impugna così la decisione davanti a un collegio di conciliazione e arbitrato che giudica troppo generica l’accusa e annulla la sanzione disciplinare. A Carla, infatti, ha stabilito il collegio, non è stato consentito di potersi difendere. Il caso vuole che due giorni dopo la sua richiesta di composizione del collegio, a fine settembre 2012, venga licenziata. La datrice di lavoro, infatti, spiega che tre mesi prima, a fine giugno, una cliente del centro sente l’estetista dichiarare di volere buttare, ad insaputa della titolare, le cerette acquistate dall’azienda non gradendo tipologia e colore. Non solo. Carla, sempre a detta di colleghe e clienti avrebbe utilizzato epiteti volgari nei confronti della titolare. Per non parlare delle lunghe attese delle clienti sui lettini, aspettando che l’estetista finisse di fumare.
Condotte gravissime che, secondo la titolare, ledono l’immagine e la credibilità aziendali. Per Carla, però, dietro quel licenziamento, si nasconde un atteggiamento discriminatorio nei confronti della lavoratrice. Carla, scrive il suo avvocato nel ricorso al giudice del lavoro è «l’immagine della giovane donna all’avanguardia, attenta alle tendenze moderna che sfoggiava sul posto di lavoro un look a dir poco estroso, ma perfettamente in linea con dettami della moda del XXI secolo: capelli colorati, piercing e tatuaggi». Un aspetto esuberante e strada facendo più esasperato, che, da un certo momento in poi, la titolare non avrebbe più tollerato. Ma il giudice è di diverso avviso. Con ordinanza rigetta il ricorso e, soprattutto, condanna Carla al pagamento delle spese. Tremila euro, di fatto, per un processo che si è esaurito in una sola udienza. Carla difficilmente si opporrà all’ordinanza. Preferisce pagare, chiedendo un prestito personale, piuttosto che correre il rischio, di pagare due volte.
A quanto pare, quella della condanna alle spese, piuttosto salate, nei confronti del lavoratore è ormai una prassi, sostengono alcuni avvocati lavoristi. Anche in questo modo si scoraggiano i ricorsi. Con la riforma Fornero che ha ristretto le ipotesi in cui è possibile impugnare il licenziamento e chiedere la reintegrazione, intervenendo anche sul processo del lavoro, gli spazi per ricorrere al giudice si sono ridimensionati. Se il numero delle udienze in cui si discutono le cause è ridotto (con contrazione dei margini per ammettere le prove testimoniali e documentali), la compensazione delle spese, un tempo prassi piuttosto comune a meno che la lite attivata non avesse sfiorato la temerarietà, sembra ormai un lontano ricordo. E, indipendentemente dal merito e dal caso di Carla, a farne le spese è sempre più spesso il lavoratore.
















