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Nuovi foggiani: «Eje, we cumbà» Se gli stranieri rubano la lingua

Nuovi foggiani: «Eje, we cumbà» Se gli stranieri rubano la lingua

 
Nuovi foggiani: «Eje, we cumbà» Se gli stranieri rubano la lingua

Domenica 14 Agosto 2011, 10:20

02 Febbraio 2016, 23:40

di DAVIDE GRITTANI

Pur di sfuggire alla fame e di conservare intatta la pelle, i superstiti dell’equipaggio spagnolo che insieme a Cristoforo Colombo approdarono (senza saperlo) a San Salvador impiegarono pochi giorni per registrare e imparare usi, costumi, linguaggio del corpo e sintassi della comunicazione degli indigeni che li accolsero. Qualcuno di loro fu letteralmente sbranato nel tentativo di stabilire una primitiva forma di contatto intellettuale, altri diventarono “capi spirituali” come lo stesso Colombo. Ma quando, dai diari di viaggio, lo venne a sapere anche Isabella I di Castiglia (vera “ar matrice” della spedizione) pare che la reazione fu tutt’altro che di compiacimento: «Avete sporcato la lingua reale, pur di chiedere del cibo a degli indigeni!» Questo episodio - ricostruito abbastanza all’ingrosso - rappresenterebbe in realtà il primo esperimento di innesto artificiale di un linguaggio nella storia dell’umanità. E sarebbe avvenuto “soltanto” 5 secoli fa.

Paradossalmente ce lo ha ricordato Baba Maghùdé, capofamiglia di un nucleo di quattro persone arrivate qualche mese fa a Foggia dal Mozambico. Profughi di guerra, fuggiti da Nampula: una delle culle dell’etnia bantu (3500 anni di storia) che non aveva una lingua scritta ma che per tradizione basava la sopravvivenza della sua gente sulla tolleranza. I Maghùdé stazionano davanti a uno dei semafori di viale Primo maggio, li cambiano in continuazione a seconda del flusso del traffico (e quindi del denaro che possano ricavarne). «Ho imparato un poco di italiano quando stavo a Verona, siamo rimasti lì cinque anni con la mia famiglia - racconta alla Gazzetta, chiedendo per favore che le due figlie entrambe minorenni non vengano ritratte -. Quello che sta succedendo ai miei fratelli mi spaventa, mi spaventa e un po’ mi offende». 

Ma cosa gli sta succedendo? «Sta succedendo che stanno offendendo la lingua madre e quella dei foggesi... » Dei Foggiani? «Scusa amico, dei Foggiani! Perché parlano una lingua che non è la loro, perché la parlano male nella speranza di prendere qualche soldo in più. Ma ignorano che sono stati cresciuti con il culto del loro dialetto bantu (oltre 70 idiomi parlati da 310 milioni di africani, ndr) mentre stanno offendendo il dialetto dei... Foggiani. Che sono queste parole ai semafori? Che sono queste cose dette per strada? Che fai, solo per prendere dei soldi in più? Ma non si offende una lingua così, perché in Italia non si parla l’Italiano?» 

Certo, non c’era bisogno di Baba Maghùdé per accorgersene. Tuttavia sentirselo dire - così perentoriamente - fornisce occasione per affrontare il tema, la povera e umiliante involuzione linguistica a cui gli extracomunitari presenti in città si stanno sottoponendo pur “di spingere la notte più in là”. Mentre ieri (fino alla metà degli anni Novanta) era solo «vu cumprà?», oggi (da oltre un anno a questa parte) il cliché della sosta a tutti i semafori cittadini contempla un ruvido e decisamente inascoltabile «we cumbà, tutt’ a’ post?». 

Ne sono oltre 300 stando all’ultimo rapporto della Caritas, di giorno sono i padroni della viabilità cittadina e di notte diventano dei fantasmi. Africani perlopiù, che nel tentativo di sfuggire alla fame e di conservare intatta la pelle stanno sporcando i sacri dettami di una lingua madre che affonda le proprie radici nella notte dei tempi. Come mai, secondo lei? «Stanno diventando aggressivi - aggiunge Baba - a volte brutali. Non chiedono, pretendono. Non si limitano a sperare, ma devono prendere qualcosa e basta». E il lessico di questa tragedia urbana assume sempre più i connotati di una commedia dialettale, con loro come protagonisti: «Che’ eje fa, cumbà? Me da i soold? Io mangiare uagliò, tu avere macchina io veche all’appide». 

Bene intesi, chi lavora a Brescia avrà certamente assunto un po’ di quella cadenza lagnosa e operaia tipica dei luoghi, come chi vive in Campania avrà di sicuro attinto a piene mani da quella che Eduardo De Filippo ha trasformato da strumento di comunicazione in lingua. Ma sentire il Foggiano addosso a queste persone significa fondamentalmente due cose: la prima che il loro istinto di sopravvivenza si è spinto oltre ogni limite (fino a imparare alla perfezione un dialetto ostico, pesante e senza vocali), la seconda che il nostro senso di inappartanenza alla città ci ha distratto fino all’esproprio della nostra lingua. 

«Meglio morire di fame - dice Sayblee una delle ragazze che Baba protegge con affetto e orgoglio - meglio morire in mezzo alla strada che diventare così. Gli Africani hanno una dignità enorme, che non può diventare un mezzo di scambio». Men che meno per qualche centesimo, eppure poco più in là non la pensano. Muoviamo la macchina per cercare u n’altra testimonianza, ma è la testimonianza a incontrare noi. «Weh amigo, cumbagnke mije bell. Comme sta... » in questo misto tra napoletano e foggiano che sa né dell’uno né dell’altro, ma a questo ragazzo devono aver spiegato - chissà quale genio della comunicazione globale - che funziona così: che l’aggressività paga, che la normalità non fa lavorare più nessuno, che se pretendi «puoi tornare a casa - spiegano sempre dalla Caritas diocesana di Foggia - anche con 30 o 40 euro al giorno, insomma la paga mensile di un operaio della Fiat». Senza mai passare per il banco di lavoro, senza mai indossare il camice sporco di grasso. Ma dicendo sempre e solo «we cumbà» a chi non t’hai mai visto prima. Questa gente, questa povera e magari nobilissima gente, è approdata senza saperlo in una San Salvador senza mare, senza palme e senza spezie. In una città, Foggia, che ha talmente smarrito il suo senso di vita e di collegialità che tutto quel che succede (quando succede!) si verifica ai suoi incroci, ai suoi semafori appunto. E noi Foggiani, un po’ come Isabella I di Castiglia, a lamentarci della nostra lingua «sporcata dall’arrivo degli stranieri», ignorando però di essere diventati i primi apolidi di questa terra senza più anima.
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