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Viva la Repubblica della nostra lingua

Viva la Repubblica della nostra lingua

 
Rosario Coluccia

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Rosario Coluccia

Viva la Repubblica della nostra lingua

foto Nove da Firenze

Il Comune di Roma (S.P.Q.R.) e l’Accademia della Crusca dedicano una lapide a Pietro Bembo, che in palazzo Baldassini, a Roma in via delle Coppelle, trascorse gli ultimi anni di vita

Sabato 27 Gennaio 2024, 01:47

Il 18 gennaio 2024, a Roma, in via delle Coppelle, nel Palazzo Baldassini (oggi sede dell’Istituto Luigi Sturzo) è stata collocata una lapide che riproduco integralmente: «In questo palazzo / a lui offerto nel 1544 / dall’amico Giovanni della Casa / il 18 gennaio 1547 morì / Pietro Bembo / che nel Rinascimento / fece grande / la nostra lingua / agli occhi di tutta Europa. / S.P.Q.R. Accademia della Crusca». Il Comune di Roma (S.P.Q.R.) e l’Accademia della Crusca, congiuntamente, dedicano una lapide a Pietro Bembo, che in quel palazzo trascorse gli ultimi anni di vita. All’inizio della cerimonia, le motivazioni dell’iniziativa sono state illustrate da Giulia Silvia Ghia, assessora alla Cultura, allo Sport e alle Politiche giovanili del I° Municipio, da Nicola Antonetti, presidente dell’Istituto Sturzo, da Paolo D’Achille, presidente dell’Accademia della Crusca, da Miguel Gotor, assessore alla Cultura di Roma Capitale.

È suggestivo che la lapide di Bembo sia stata collocata di fronte ad una preesistente lapide che ricorda un breve soggiorno in quello stesso palazzo di Giuseppe Garibaldi che «tornava festeggiato in Roma» nel gennaio 1875, per sollecitare l’avvio di lavori pubblici in grado di preservare la capitale dalle frequenti, a volte disastrose, inondazioni del Tevere. Garibaldi e Bembo idealmente affiancati, pur nella diversità dei grandi risultati da entrambi conseguiti a beneficio del nostro Paese. Celeberrimo uomo d’azione il primo, grammatico e letterato il secondo, che con gli strumenti a lui consoni indicò agli italiani del Cinquecento e dei secoli successivi la strada per raggiungere l’unità linguistica, allora lontanissima: la storia d’Italia è attraversata da tradizioni linguistiche molteplici e da dialetti diversi, straordinari nella loro vivacità e nel loro fascino, ma anche ostacolo per la formazione di un’unica lingua nazionale.

Bembo indicò all’Italia la strada dell’unità linguistica e additò gli esempi da seguire: Petrarca per la poesia e Boccaccio per la prosa, non sempre Dante che aveva accolto nella Divina Commedia forme poco auliche, poco rispondenti alle esigenze di una lingua elevata tutta da costruire. Dunque un modello elitario, difficile per la maggioranza degli italiani, allora poco o per nulla istruiti; ma l’unico modello possibile (e per questo vincente) nella situazione di allora, tanto diversa da quella attuale.

Nato a Venezia il 20 maggio 1470 in una famiglia aristocratica e potente, Bembo visse una parte della vita tra frequentazioni di corti, incarichi pubblici, attività letteraria e amori. Celebre quello per Maria Savorgnan (1500-1501), affascinante donna sposata che influì fortemente sull’uomo e sul poeta. Successivo fu l’amore per Faustina Morosina della Torre (la Morosina), conosciuta e amata sedicenne fin dal 1513, che tra il 1523 e il 1528 gli diede tre figli, nonostante i voti religiosi da lui pronunziati il 6 dicembre 1522. Questo era possibile, in quel tempo, senza scandalo particolare e senza che la situazione costituisse ostacolo insormontabile alla carriera ecclesiastica. Come prova la nomina a cardinale conseguita nel 1539, prossimo ai settant’anni, negli stessi anni in cui dedicava sonetti amorosi alla gentildonna veneziana Elisabetta Massolo, ritratta da Tiziano e cantata anche da Giovanni Della Casa, lo stesso che munificamente offrì a Bembo, divenuto cardinale e risiedente a Roma, la magnifica dimora di Palazzo Baldassini. Della Casa è autore di un libro famoso, Il Galateo, che regolò i comportamenti sociali di generazioni di italiani e fu largamente imitato da altri autori, fino ai nostri giorni. Da quel libro è derivato il nome comune «galateo» che indica il complesso di educazione e buona creanza che regola i rapporti fra persone: «dovresti imparare il galateo», potremmo suggerire a chi si comporta con maleducazione.

Claudio Marazzini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, che ha avuto l’idea della lapide, ha definito Bembo «principe dei grammatici», passato alla storia per la soluzione da lui data alla cosiddetta «questione della lingua». Nelle Prose della volgar lingua (1525) Bembo sostenne la fiorentinità della lingua italiana sulla base dell’eccellenza trecentesca di quella tradizione, scrivendo una delle prime grammatiche della nostra lingua, fonte d’ispirazione per molte grammatiche successive. La questione della lingua, protratta per secoli, non è un dibattito astratto tra linguisti distaccati dalla realtà, ma fu in grado di coinvolgere le personalità più rilevanti della nostra storia culturale, da Dante a Manzoni e a molti altri, impegnati nella ricerca di una lingua che garantisse agli italiani un mezzo collettivo di comunicazione, già raggiunto da altri Paesi europei (Francia, Spagna, Inghilterra) e da noi ancora mancante, anche in conseguenza della tardiva unità politica.

La rilevanza sociale di tale dibattito fu compresa appieno da un non linguista, da Antonio Gramsci, che dal carcere in cui era stato rinchiuso dalla dittatura fascista, poteva scrivere: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». Deludendo le aspettative del suo maestro Matteo Bartoli, che vaticinava in lui «l’arcangelo destinato a profligare definitivamente i neogrammatici» (come scriveva in una lettera dal carcere alla cognata Tatiana Schucht), Gramsci abbandonò gli studi di linguistica che aveva cominciato durante gli anni universitari per dedicarsi interamente alla politica. Ma restò sempre lucidissima in lui la consapevolezza della centralità della lingua, strumento identitario prezioso al cui possesso oggi finalmente è approdata la stragrande maggioranza della popolazione italiana, che può giovarsene per scrivere e leggere, per capire come vanno le cose del mondo e per far valere i propri diritti.

Giuseppe Patota, autorevolissimo studioso di Bembo, ha così concluso il suo intervento al dibattito. Il primo articolo della Costituzione afferma che l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. La repubblica della lingua e delle lettere si è fondata, nel corso dei secoli, sulla grammatica di Pietro Bembo.

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