BARI - Stare in Puglia anziché in Cina è una differenza abissale, non solo per la distanza chilometrica. Per quanto nella Repubblica Popolare siano tornati a vivere senza particolari restrizioni, l'esperienza di lavoro a quelle latitudini di Antonella Dipierro, 34 anni, di Noicattaro, e di sei colleghi di (s)ventura, si è rivelata diversa, lunga ed estenuante. Per lei, abituata a viaggiare attraverso i continenti per diletto, il rientro, proprio a ridosso delle festività, è stato una liberazione, pur avendo dovuto aggiungere 14 giorni di quarantena finale, durante i quali ha almeno recuperato le energie fisiche e psicologiche («mi sono rifugiata in casa per staccare la mente») prosciugate in oltre un mese e mezzo di permanenza tra Shanghai, metropoli da 26 milioni di abitanti, e Taizhou (distante solo 400 chilometri), quattro volte meno popolosa (ne ha 6 milioni), ma pur sempre con il doppio dei residenti rispetto a Roma.
ARRIVO - Come i nostri lettori avranno forse avuto modo di leggere, Dipierro, inviata con i colleghi in Estremo Oriente dall’azienda barese di cui è dipendente, leader nella progettazione e realizzazione di macchine e linee automatiche per l’assemblaggio e il collaudo di componenti automobilistici, è partita da Bari il 30 ottobre per installare il software dei banchi di collaudo frizioni in uno stabilimento di un’azienda locale. Sbarcata a Shanghai (con il passaporto con visto e l’approvazione dell’ambasciata cinese, ma soprattutto con la preziosa certificazione di un test anti-Covid negativo fatto in Italia) si è ritrovata di fronte alle eccezionali misure di sicurezza adottate in quel Paese: moduli di salute da compilare, dichiarazione di movimenti passati e futuri, distribuzione di istruzioni, scansioni di qr code in ogni posto di controllo.
E, alla fine, il tampone di ingresso. In Cina, però, non basta essere negativi al primo test. Ce ne vuole un altro che certifichi definitivamente di non essere infetti dopo un periodo di quarantena (14 giorni) in strutture alberghiere dedicate. «Un bus speciale - racconta Dipierro - mi porta all’hotel per i primi tre giorni, in attesa dell’esito del primo test. Disinfettati i bagagli, mi consegnano le chiavi dell’alloggio indicandomi un qr code attraverso cui aggiungere il contatto WeChat del medico che mi terrà sotto controllo: devo misurare la febbre due volte al giorno e comunicarla. Noto sui contenitori dei pasti serviti il biglietto da visita del ristorante che li fornisce: ci sono i nomi dei due cuochi e affianco la loro temperatura rilevata nel momento della preparazione. Lo trovo incredibile. Avviene anche nell’albergo di Taizhou, sede dello stabilimento di destinazione, che raggiungo dopo la negatività del tampone fatto in aeroporto. Trascorro gli altri 11 giorni in un Covid hotel prima di poter iniziare a lavorare. Cerco di far passare il tempo, interminabile, fino al 13 novembre, data in cui è prevista la fine della clausura».
RESTRIZIONI - Da qui inizia la seconda parte della storia, cioè da quando arriva per tutti l’esito del tampone decisivo: negativo («a quel punto ci spostiamo in un quattro stelle prenotato dalla mia azienda - spiega Dipierro - pensando di aver finalmente meritato il salvacondotto per la libertà»). Ma la contentezza dura poco: le autorità comunicano che gli spostamenti durante la permanenza dovranno essere tassativamente dall’albergo al lavoro e viceversa («chiedo perplessa agli altri se ce la faremo a reggere»). Insomma, il colpo è duro. Distanziato per la durata della quarantena, il gruppo finalmente si riunisce, ma interagisce soltanto per lo stretto necessario, cioè per portare a termine la missione. Fuori dalla fabbrica niente svaghi, nessuna passeggiata. Il divieto di spostarsi vale per Dipierro così come per Dario De Bellis, 46 anni, di Bitritto, che nel team si occupa dell’installazione dei macchinari.
«Alle 7.30 del mattino - prosegue - una navetta ci conduce al lavoro e poi di sera ci riporta in hotel. Per me è uno choc, convinto di poter uscire almeno per acquistare un po’ di provviste e prodotti per l’igiene. Invece niente. Al cantiere possiamo scambiarci qualche parola solo nella pausa pranzo in una stanzetta con un tavolo e qualche sedia da raggiungere pure per bere: è infatti vietato togliere la mascherina negli ambienti di lavoro anche per rifocillarsi. La nostra piccola rivincita arriva dopo la call serale con l’azienda. Mentre il ristorante dell’albergo è gremito, noi non possiamo muoverci dalle camere, ma ordiniamo da mangiare, sempre su WeChat, e poi ci riuniamo a turno nella stanza di qualcuno. Non è consentito, ma lo facciamo lo stesso. Forse rischiamo ripercussioni. Ma chiudono un occhio, evidentemente. Altrimenti, anziché tutti al nono, ci avrebbero distribuito su più piani. L’unica concessione è appunto ordinare la cena da locali esterni. Possiamo almeno avere qualche pietanza occidentale».
RITORNO - Non ne possono più del cibo cinese. E non solo. Ma il giorno del rientro arriva. A dicembre inoltrato, i magnifici sette, con diversi chili in meno, ma con il peso di circa cinque settimane di forti restrizioni sul groppone, prendono i bagagli ripercorrendo molto volentieri il tragitto a ritroso verso l’Italia. Con qualche differenza rispetto al viaggio di andata.
«Andiamo in auto a Shanghai - ricorda De Bellis - per imbarcarci sull’aereo. Di solito bastano un paio di scali, ma non ci sono posti nella tratta più veloce, così dobbiamo fermarci prima all’aeroporto di Zurigo, poi a Francoforte, quindi a Roma per poi prendere l’ultimo volo per la Puglia. Se all’andata abbiamo dovuto superare una serie di ostacoli, al ritorno c’è soltanto la verifica della temperatura. Arrivati in Italia, a Roma compilo il modulo col quale dichiaro la permanenza in Cina nei precedenti 14 giorni e il rientro al mio domicilio. Poi, giunto a Bari, inoltro l’autocertificazione richiesta dalla Regione Puglia sul sito istituzionale, invio il documento al medico curante prima di farmi due settimane di quarantena. A essere sincero - dice ricapitolando - è stata un’esperienza traumatica che non rifarei, molto diversa rispetto al viaggio, sempre di lavoro, fatto in passato a Nanchino, dove ho potuto visitare la città e mantenere quel senso di libertà indispensabile. Però, ho imparato una lezione: i cinesi ci hanno obbligato a seguire regole severe, forse troppo, per tutelare i loro cittadini che in questo periodo circolano senza mascherina ovunque, anche nei centri commerciali gremiti. Li vedevo quasi con invidia dalla finestra dell’hotel. Forse ci vorrebbe più rigidità anche da noi per chiunque arrivi dall’estero. E la sensazione, a parte la grande capacità di tracciamento e di testing, è che rispetto a noi i cinesi siano più propensi a rispettare le regole. Sarà forse un retaggio culturale. Noi invece siamo nel pieno di un secondo lockdown. Dovemmo chiederci il perché».