Domenica 02 Novembre 2025 | 15:28

Quella santa alleanza tra medico e paziente

Quella santa alleanza tra medico e paziente

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Michele Mirabella

Domenica 02 Novembre 2025, 09:31

Icasi della vita mi pongono in una condizione d’arruolamento forzato nei ranghi della medicina dove armeggio con curiosità quasi adolescenziale e con la soddisfazione di veder declinare la mia ipocondria che si arrende di fronte allo squadernare esagerato dei malesseri che potrei accusare.

Lavoro in televisione ad: Elisir. È una trasmissione di Rai3 dedicata alla divulgazione medica e fondata sul tentativo di aiutare tutti a «vivere meglio». Come recita il blando slogan promozionale. Non a spingere ad essere sani, belli e felici a tutti i costi, posto che quest’ambizioso programma sia proponibile nel breve errore della vita, perché riteniamo che salute e malattia siano componenti ineluttabili dell’esistenza umana così come ci piace tanto trascorrerla, così com’è, insomma.

Questa mia fatica d’uomo, è condivisa da tutti coloro che con mente aperta si rivolgono ai medici non come ad alteri sciamani depositari di saperi iniziatici, ma come a «tecnici» capaci di elaborare varie arti alte e di decifrare il linguaggio e il sistema del corpo. E la notizia è questa: la medicina non è solo una scienza, ma è, soprattutto, una «tecnica» che fa capaci coloro che la conoscono di praticare arti e scienze.

Tecnica. Parola che, sin dalla sua origine, comprende un complesso di regole necessarie a svolgere un’attività. Tanto più queste regole saranno armonizzate in un insieme articolato e dettagliato, tanto più sarà efficace la realizzazione del progetto. Nel Corpus Ippocratico hanno uno spazio ingente le descrizioni delle tecniche diagnostiche e soprattutto chirurgiche. Basti pensare alla larga trattazione di quelle che Ippocrate chiama «le ferite alla testa» e, cioè, la trapanazione del cranio e alla metodica (altra parola su cui dovremmo indagare) della riduzione di slogature e fratture che va sotto il nome di «Articolazioni».

Nella Etica Nicomachea Aristotele pose una differenza fra due forme di azioni: la tekne, «saper fare» (che è al servizio degli altri), e la praxis (che ha il proprio scopo in sé stessa). La tekne non è diversa dall’arte o dalla scienza perché, anche questa, tende a conseguire uno scopo, né varia da qualsiasi altro procedimento, o operazione volta al conseguimento di un effetto qualsiasi, ed il suo campo si estende a tutto l’agire umano. Forse è noto, non ne dubito, ma a me e a quelli come me che hanno a che fare con la medicina solo quando sono pazientissimi pazienti, è misterioso costatare che le malattie non si verificano nel corpo, ma nella vita. Un disturbo è un disturbo: ci affligge, è vero, ma non ci dice sul come la malattia si sia avviata. Quando i medici sono come noi, al massimo pazientissimi, sanno che cos’è il corpo inserito in un tempo, in un luogo, nella storia, in un tessuto sociale, nel mondo, insomma.

E sanno i medici, prima di diventare del tutto medici che cosa sia il mondo della vita e dell’esperienza della vita e del bene e, qualche volta, del male di vivere. Poi, lentamente, il corpo e la vita dileguano, si appannano, restano sul fondo nel palcoscenico padroneggiato dai nuovi protagonisti, il corpo biologico e dai comprimari che sono la diagnostica moderna, la tecnologia evoluta le analisi sofisticate, il laboratorio, le immagini ricostruite. E prevale imperiosa e sacrosanta, s’intende, la conoscenza oggettiva che pone in ombra le esperienze soggettive, il vissuto, la storia del corpo che conserva, forse, il segreto vero e la trama profonda della malattia e causa di ciò che ci affligge e ci fa soffrire. Perché il dolore del paziente è una storia complessa con un vissuto ineffabile, a volte, che non combacia sempre con quello che cerca il medico.

Il medico, di là dalla meravigliosa dedizione, difficilmente s’incamminerà sulla stessa strada del corpo che soffre perché il medico cerca il male con accanimento scientifico e non sempre può conoscere la strada del male e del dolore che sono dei vissuti soggettivi che riguardano la Vita. E questo, tutto questo, per essere indagato bisogna che sia ricondotto agli ambiti esistenziali alle esperienze totali. Il dolore esce dal corpo medico e invade la vita di relazione e la cambia, intristisce gli affetti, modifica i rapporti sociali e si chiude in un’ineffabilità che non può, se non in parte, essere scalfita dal resoconto dell’individuo-paziente. Questo, poi, il resoconto, racconta il male e, spesso lo descrive con quelle parole e quel linguaggio tecnico che il paziente azzarda a copiare senza riuscire a vedervi trasferito neanche un barlume del suo dolore. Ed è questa la frustrazione, è in questa distanza tra l’inesprimibile e il tecnicamente circoscritto.

Il paziente e il medico sanno di parlare linguaggi diversi e addirittura simmetrici, confabulano in un’alleanza ineluttabile, ma difficile e comunicano le proprie solitudini: l’uno, il paziente alle prese col suo dolore che parla, diciamo cosi, con le parole del corpo umano e l’altro, il medico, che interpreta con quelle del corpo biologico. Una santa alleanza.

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