«Buttiamo a mare le basi americane – Cessiamo di fare da spalla agli assassini – Fermiamo una storia lunga di vent’anni – Andiamo a conquistare la nostra libertà». Così si cantava, o, almeno, alcuni poco pacificamente istigavano ai naufragi cantando e sfilando negli anni sessanta. Ed erano cori, cortei, manifestazioni, occupazioni di fabbriche e scuole, di aule universitarie, serate di bevute poco ideologiche e di amori fiammeggianti, di pic-nic con tanto di bandiere rosse e nazionali (in minoranza queste, in stragrande maggioranza, quelle).
La canzone era bruttina, ma genuina e, musicalmente, orecchiabile: scaturiva dal talento di tal Rudi Assuntino, credo. Era un cantautore non celebre, ma bravo e onesto che, ovviamente, disertava San Remo e zone adiacenti per pudore e coerenza. O solo perché non invitato, chi può dirlo? Oggi l’impegno politico latita beatamente dall’Ariston. E «chi se ne frega», risponderebbero da quelle parti. Non senza ragione, diciamolo. Anche a quei tempi, il Festival della Canzone non meritava gli attuali alibi buonisti ed era considerato dalla cultura di sinistra poco più o poco meno di una sentina di volgarità reazionarie e uno stupidario innocente e sovente gradevole, ma sempre stupidario di canzonette. Musicalmente, però, era meglio ascoltare alcune belle pagine musicali. Che, pur, v’erano. E preferivamo in molti Mina. Intesa come cantante. A quei tempi «Buttiamo a mare le basi americane», dunque, si cantava con la gola e il cuore spiegati.
Mio padre sentenziava che se non si è stati rivoluzionari a vent’anni, a cinquanta si è diventati preti. Ciò, forse, spiega la mia ritrosia alla tonsura e il fatto che sia rimasto un imperterrito peccatore, nonostante tentassi e, ancora tenti, di intrattenere con il Padreterno un rapporto d’umile amicizia amorosa e devota. A vent’anni fiancheggiavo con prudenza e ironia la rivoluzione, posto che non fosse una contraddizione goffa e ridicola. e cantavo l’invettiva alle basi americane. Ricordo memorabili marce della pace nelle Murge, nella zona di Altamura e Gravina dove, i bene informati ci allarmavano, gli Americani avevano posto i loro siti missilistici. Dovevano essere in trincee in luoghi molto ben nascosti, evidentemente, perché non ci riuscì mai di vederne uno.
Ai tempi di cui vado ricordando, da quelle parti, si svolgeva una vita pacifica e i giornalisti un poco spaesati e a digiuno di geografia meridionale, almeno, speravano di intravedere l’orma di Carlo Levi e le sue tracce letterarie. A nessuno sarebbe venuto in mente di farneticare di terra del demonio e santuario cupo di suoi riti scemi e di idiozie connesse, anche in presenza di delitti orrendi purtroppo, come da mondo è mondo, ascrivibili solo alla spietata follia umana.
Ricordo di aver sentito proclamare dal palco improvvisato e pavesato di bandiere: «Gravina è col Vietnam!». Mi commossi e non potetti fare a meno di pensare alla faccia preoccupata del Presidente Johnson all’apprendere la notizia. «Se Gravina è col Vietnam e si schiera con i Vietcong, è ostile agli Stati Uniti. Vuol dire che la causa è persa e non vale più la pena di insistere». Forse l’oratore sperava che così pensasse LBJ, il coriaceo Presidente Yankee e schierava la pacifica Gravina di Puglia in campo contro l’imperialismo americano. Alla patetica illusione non potetti che sorridere e tirai dritto nel corteo cantando: «Buttiamo a mare le basi americane, cessiamo di fare da spalla agli assassini». Eccetera.
Gli Americani se ne infischiarono della discesa in campo di Gravina di Puglia e continuarono imperterriti col napalm e i bombardamenti.
Poi se n’andarono, anzi, furono cacciati. E allora pensai che anche Gravina di Puglia aveva fatto la sua parte e anche noi, cantando, avevamo fatto la nostra.
Allora volevamo cacciare le basi americane perché ci schieravamo per la Pace (nessuno, giuro, le avrebbe volute sostituire con quelle russe, per carità). Pie illusioni, d’accordo, erano pie illusioni, anche se, in fondo, sapevamo che qualche beneficio proprio la Pace lo aveva da quelle basi. E più tardi lo avrebbe detto anche il segretario del Partito Comunista Italiano Berlinguer, un galantuomo che condivideva, di certo, il nostro repertorio di canzoni e non sarebbe andato mai a San Remo.
Trump, invece, aspetta solo che lo invitino. Ha già pronte una dozzina di terribili cravatte. I tempi cambiano e va bene, lo sanno tutti.
L’attuale Presidente degli Stati Uniti è stato a sentire con le brache in mano (questa volta in senso metaforico) e, guardandolo, a me è tornata in mente la canzone: “Buttiamo a mare le basi americane”. Un incitamento simbolico e pacifico-consumistico perché le “basi americane” sono di tipo turistico mondano. Come l’attuale Presidente americano medita di trasformare Gaza. Se ne infischia di Gravina di Puglia. Per fortuna.
Che volete farci: non sono diventato prete!
MICHELE MIRABELLA
















