Sabato 06 Settembre 2025 | 11:13

Che incanto la Pasqua delle «famiglione»

 
Michele Mirabella

Reporter:

Michele Mirabella

Che incanto la Pasqua delle «famiglione»

I bimbi mangiavano intorno ad un tavolino di fortuna in un angolo della stanza. Ed erano quelli che si divertivano di più

Domenica 31 Marzo 2024, 16:31

16:33

La Pasqua mi spinge a rimpiangere la mia infanzia in famiglia con una riflessione e un ricordo. La prima: mio padre aveva tanti fratelli e sorelle che fatico a ricordarmeli tutti. Ed erano solo quelli sopravvissuti alla feroce selezione naturale dei primi decenni del secolo breve, come lo chiama Eric Hobsbawm. Meno male che è stato breve, altrimenti chi sa quali catastrofi ancora ci avrebbe portato.

Ma torniamo a mio padre e alla sua affollata famiglia, anzi possiamo tornare anche a mia madre e alla sua altrettanto numerosa fratellanza. Erano piccole moltitudini e, ogni volta che nasceva un bambino, sembrava che fosse di tutti e mio nonno sanciva l’evento proclamando che era la benedizione del Padreterno. Erano tempi duri e, che io mi ricordi, erano quasi tutti poveri e i pochissimi ricchi erano guardati con sospetto più che con invidia. Meno male che, come spesso accadeva a quei tempi, tempi della mia infanzia, appena usciti dalla II Guerra Mondiale, le famiglie dei miei genitori intrattenevano tra loro rapporti formali, altrimenti ai pranzi delle ricorrenze saremmo stati una moltitudine. Invece si faceva a turno, dai parenti di babbo alla vigilia, dai parenti di mamma il Natale e così via. E, comunque, eravamo troppi e i bambini mangiavano intorno ad un tavolino di fortuna apparecchiato in un angolo della stanza. Ed erano quelli che si divertivano di più. Queste belle famiglione sono state le ultime che abbiamo potuto contemplare.

Oggi, quando le famiglie si riuniscono a Pasqua basta un servizio da sei per tutti, compresi un paio di nonni e il nuovo fidanzato della mamma. Se poi va di lusso e si tira fuori il servizio buono del secondo matrimonio di papà, vuol dire che sono stati invitati anche la nuova moglie di papà, il compagno della mamma e il vecchio fidanzato dell’ex moglie del nuovo marito della nonna paterna acquisita. Si, perché quella vera vive con un’ex ballerina di flamenco nella villa del compianto primo marito. Con tutto questo accoppiarsi, figli pochi: come dicono le statistiche, una media di tre quarti di figlio per coppia. Com’è tre quarti di figlio? L’unico marito di mia sorella che era all’antica direbbe: tutta colpa della mangiatoia che è troppo bassa. Questa riflessione scalpita per aprire un’altra pagina che tratta della famiglia. In fieri, questa volta.

Negli anni Cinquanta, in casa nostra, lavorava una giovane bella figliola che svolgeva mansioni miste di cameriera, cuoca (scadente) e brava maestra giardiniera: Beatrice. Mia madre ne gestiva i servizi con affetto e famigliarità. C’eravamo affezionati a lei e a me, bambino, sembrava una parte della nostra tribù e coltivavo la ingenua illusione che sarebbe rimasta sempre con noi.

Ma un giorno uscì presto, nel primo pomeriggio, e tornò, ben accomodata sulla canna di una bicicletta da uomo. L’uomo, un ragazzone abbronzato in canottiera, fermò il biciclo appoggiando il piede sul marciapiedi e restando in bilico precario per via del peso, poi allargò le braccia per consentire a Beatrice di gesticolare con esplicita eloquenza tutta pugliese e comunicare a tutta la famiglia riunita sul balcone che se ne stava andando «in discesa». Io non capii questa improvvisa deriva acrobatica, ma intuii doversi trattare di situazione imbarazzante dal fare di mia madre che borbottò qualcosa a mio padre squadrandoci di sottecchi per tenere noi bambini al riparo da chi sa quale mistero. Mio padre ingiunse a Beatrice di salire per spiegarci l’improvvisa decisione. Lei salì a quattro a quattro gli scalini di casa e, trafelata, entrando, ammise che se ne sarebbe «scesa» con lui, il nerboruto ciclista e suo innamoratissimo fidanzato. Pensai alle scale, ma non c’entravano niente. Familiarizzai, così, con questo uso tutto nostro del verbo «scendere» nella bizzarra versione parariflessiva che, oggi, so voler dire abbandonare gli indugi da parte di innamorati impazienti che si congiungono in clandestinità per affrettare con nozze riparatrici il compimento del loro idillio. Beatrice, in realtà doveva riparare urgentemente perché l’idillio era in stato di avanzato progresso, anzi la «fuitina», la discesa era già avvenuta da un pezzo. Beatrice, insomma, stava per diventare una zita ascennute. È già, perché ci informò che era incinta. Ma, precisò, solo «appena appena». Anzi, lei disse «nu picca picc». Io trovai veniale la condizione, ma avevo cinque anni e ignoravo anche solo i fondamentali della genetica. Sapevo solo che tutta quella faccenda della donna incinta e del pancione finivano con una procedura che era riassunta, nel popolare sbrigarsi del lessico famigliare, in una forma verbale bruttissima: sgravare.

La storia di Beatrice finì benissimo e, senza più bisogno di fare la bellezza in bicicletta, si sgravò più e più volte e, anche se questo le impedì di farci da governante, noi fummo felici con lei e la sua numerosa famiglia. Fu archiviata in casa la confessione di essere «incinta, ma solo un poco», tra gli aneddoti sapidi che animavano le conversazioni bonarie abituali, in famiglia, prima dell’avvento della tivù.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Marchio e contenuto di questo sito sono di interesse storico ai sensi del D. Lgs 42/2004 (decreto Soprintendenza archivistica e Bibliografica Puglia 18 settembre 2020)

Editrice del Mezzogiorno srl - Partita IVA n. 08600270725 (Privacy Policy - Cookie Policy - - Dichiarazione di accessibilità)