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La grandezza della radio è nel gioco dei suoi silenzi

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Quando c'è la salute, c'è Michele Mirabella

A Bari l’auspicio del «Premio Italia», benemerita iniziativa, oltre i soliti appelli

Domenica 01 Ottobre 2023, 13:08


«Voi mi amate, non è vero, Roderigo?». Roderigo non risponde. Si sente un dolce stormire di fronde, il lontanissimo latrare di un cane, poi neanche quelli. E, infine, dopo un silenzio che sembrò durare un’eternità, si ode la voce di Roderigo che bisbiglia: «No (pausa), non posso (pausa), lo sapete bene, Eleonora, che non posso e (pausa lunga con sospiro), non posso e non devo. (Pausa lunghissima in cui “sembra” di sentire il respiro dei due). E non dovete neanche voi».

Si risente il fruscio dei rami accompagnato, questa volta, da un esitante canto di cicale, si avverte il caldo afoso della campagna soleggiata e arsa in certe plaghe lontane. Eleonora balbetta piano «Non dob...(pausa mentre tormenta il pizzo del suo fazzoletto turchino) ...biamo» (piange silenziosamente). Roderigo si allontana dalla finestra e con passi fermi che risuonano sull’impiantito di legno di quercia guadagna l’uscio, lo spalanca e si avvia verso lo scalone di marmo lasciando dietro di sé il tintinnio della sciabola e la voce che risponde confusamente al saluto del valletto che avverte: «La carrozza, signor conte, la carrozza è pronta sul retro».

Queste ultime parole, questi ultimi suoni si confondono con l’attacco della Romanza (secondo movimento) del Concerto No. 1 in mi minore per pianoforte e orchestra di Frédéric Chopin. La voce perfetta, in impeccabile dizione riannunciò: «Abbiamo trasmesso il secondo atto de....». L’ho chiaro tutto questo, nel ricordo. E se il congedo tra Eleonora e Roderigo non fu detto con queste parole, fu scandito da quelle pause, da quei rumori. Da quei silenzi.

Ecco quanto mi insegnò la Radio: il silenzio. Alla lettura ti sfugge, il silenzio, divorato dal meccanismo dell’apprendimento. La parola, interiorizzata, scorre veloce e tende a perdere colore annidandosi nel palpito privatissimo del cuore quando il cuore non è pigro. Ma, ecco il biancore del silenzio ci venne restituito dalla Radio, più ancora che dalla scena. Perché in teatro puoi «riempire» la pausa delle voci «guardando» corpi, movimenti, luci e immagini e non «vedi» le emozioni dei sospiri, le fronde che stormiscono, il cane che latra lontano, la sciabola che tintinna. Non «vedi» l’importanza dei passi scanditi sul legno di quercia (mi raccomando), non vedi l’eloquenza del sospiro che tormenta il pizzo cilestrino.

Non ricordo chi fossero Eleonora e Roderigo, né da quale scampolo larmoyantdella scena ottocentesca il mio ricordo li abbia tratti, non ricordo la vicenda e neanche come andasse a finire. Oggi non mi interessa e, forse, non mi importò molto neanche allora, in quegli anni Cinquanta in cui imparai ad amare la Radio. Allora come adesso tengo stretta a me la lezione sul silenzio che mi fu impartita da Eleonora e Roderigo. Anzi, oggi, nel fragore inconsulto delle immagini, nel rumore che fanno, disordinato e pazzo, mi piace esercitare il diritto di riappropriarmi del silenzio e di rivendicare dalla Radio il «Restauro» di sé stessa. Che la smetta, insomma, di scimmiottare la televisione rinunciando al suo specifico linguaggio e alla sua lingua naturale. Ho il diritto di chiedere alla radio del servizio pubblico, alla vecchia, cara Radio della Rai, di tornare alla sua funzione insostituibile, di farla finita con la inutile gara verso il peggio con le radio commerciali sommergendoci, come fa troppo spesso con musica inconsulta e un insopportabile chiacchiericcio riempitivo. Ecco: riempitivo, appunto, riempitivo di ogni pausa di silenzio che minacci il cammino del rumore, del vaniloquio. Della demenza.

Non reclamo di riascoltare il finale della commedia di Eleonora e Roderigo, saranno nonni felici a questo punto. Reclamo di poter ascoltare la lingua nel linguaggio, la voce umana nei suoni, le parole e la musica. Comprese le parole e la musica del silenzio. Sembra che si biascichi un mormorio risarcitorio: «Come è bella la Radio, come eccita la fantasia, come tiene compagnia». E, poi, spudoratamente mentendo: «Come è meglio della televisione».

Pochi santi sono gabbati come la radio. Confido che questa edizione, a Bari, del «Premio Italia», benemerita iniziativa, porti buone notizie che vadano oltre i ligi e doverosi appelli al rilancio della radio, compìti elzeviri sulla sua vitalità che sembrano i consolatori epicedi ai parenti affranti del tipo «sembra che dorma». Figurano, sui giornali smilze colonnine scorrette e lacunose che annunciano i programmi e trasmissioni della radio che sono la sua vita. Niente più che tre colonnine gracili tirate via nella stessa pagina che si occupa diffusamente e con spreco di fotografie e meticolosi particolari delle opere e dei giorni dei divi televisivi o di sconosciuti che nella televisione hanno pastura. O delle televisive risse. I radioascoltatori sanno cercare e trovarsela la Radio perché la conoscono e la amano senza curarsi dell’incuria sciocca della boutique di massa dei «media». Per questo non proclamano che la rivogliono viva e vincente, perché per loro non è mai morta: è vero, da ultimo non è stata molto bene, ma si è trattato di malesseri passeggeri, di «crescenza» come diceva mia nonna.

Viva la Radio che sa vivere appartata e discreta, dignitosa e seria. E viva chi la «Radio» la ama e la rispetta come si usa tra i signori.

P.S. Va da sé che ho parlato della Rai, Radio Televisione Italiana. Ognuno parla di casa sua. Anche questo si usa tra i signori. Buon lavoro «Premio Italia».

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