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Il cadere del teatro per via degli applausi e il fuoco dell’arte

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Quando c'è la salute, c'è Michele Mirabella

Quando, però, le strutture crollano per mano speculatoria e criminale, allora risorgono con difficoltà

Domenica 17 Settembre 2023, 11:42

Divagazioni e perlustrazioni. Non è questa, una pagina dedicata alle parole, anzi, alle parole e ai fatti? Riflettevo sulle scoperte che si posson fare andando per etimologie. Non so, adesso come andrà a finire.

Insultare, a rigore d’etimologia, non è sempre un’offesa. Origina da «saltare addosso», letteralmente. E si può farlo anche con intenti affettuosi, diciamo così. È la storia che ha fatto in modo che si salti addosso a qualcuno per fargli del male e ci ha costretto ad escogitare formule idiomatiche sintetiche da potere essere usate come armi metaforiche: veloci, economiche, efficaci. Si dice, anche, per brutalizzare la cortesia seduttrice: «m’è saltato addosso appena fuori dal ristorante» si lamentava la soubrette reticente. E, se il tempo è troppo scarso e fuggitivo, nelle beghe non attivate da amore furtivo, ma da ire improvvise e inconsulte (politica e calcio), ecco che si chiede il soccorso del gesto ancora più ratto e drammatico. Nell’andirivieni del traffico o nelle risse affollate, fulminei gesti riassumono, nella fugacità dell’ora, lunghe contumelie argomentate: l’invenzione del gesto dell’ombrello o del dito medio spianato sostituiscono circostanziate offese. Come le corna. Salvo che non le spiani un italiano in una foto ricordo. Nelle foto ricordo gli Italiani dimostrano di credere alla persistenza della Storia. Un popolo così poco incline agli studi, alle «storie», come lamenta il poeta, nella grinza infinitesimale della fotografia dispone la sua fiducia nel racconto tramandato. Ecco le posture solenni, i sorrisi formali, le pance ritratte. E le corna.

Si racconta che, come dileggio, furono escogitate dai Cretesi per ricordare a Minosse il mostruoso tradimento della moglie. Lo scherzo dozzinale dello spianarle come aureola dileggiatrice del compagno di foto rimanda alla scuola media o alla camerata dove non ci sono Minotauri, ma zimbelli. Le abbiamo contemplate anche in occasioni più adulte. Stupimmo: era il teatrino della politica, spiegarono. Sbagliavano: era solo la politica del teatrino. Di Brighella, Pulcinella, Arlecchino.

Una stagionata abitudine fa che si attinga al mondo dello spettacolo, ai suoi mestieri, alle sue maschere, alla sua arte, per dileggiare. Si cominciò con «il teatrino della politica», umiliando l’arte degli attori, dei drammaturghi, della gente di palcoscenico, il genio fine dei burattinai e il sublime talento dei pagliacci. Tempo fa il facondo direttore d’un quotidiano sportivo, per vituperare lo scandalo del calcio non calciato, o altro a me oscuro meandro polemico, parlò di pochade. Egli s’incamminava pigramente nella fila di coloro che, per denigrare qualcosa, l’assomigliano all’arte scenica. La pochade era un genere di commedia sbarazzina, intricata di vezzi e divertenti equivoci ambientata tra civetterie e malizie. non aveva pretese d’arte sublime, ma faceva ridere. La vicenda del pallone no. È, per me, noiosissima. Provino con le risate registrate. Le usano coloro che non sanno far ridere per mestiere. Per arte, appunto. Una stagionata convinzione di autori ed attori stabilisce che sia più difficile far ridere che commuovere. «Qui viene la risata» sentenzia il protagonista alla lettura di buoni passaggi del copione oppure, rimarcando: «Qui vengono risata e applauso». Generalmente, se l’attore è consumato, ci azzecca. Tutti gli altri che parlano in pubblico, non legittimati da talento, mestiere e arte, vanno a casaccio e, se la risata viene, non sanno sfruttarla. Televisione e media rimediano facendo risuonare risate artificiali. Patetici! Paradosso delle leggi della comicità: quelle risate su cachinni imbecilli o sull’umorismo inerziale da bottiglieria di certe rubriche di pretesa comicità riescono solo ad irritare e non contagiano. Se venissero usate in trasmissioni serie o in dibattiti politici non occorrerebbe altro per «far cadere il teatro». Quand’è ovazione, gli attori dicono così.

Il «cadere» del teatro per via degli applausi è una metafora sognata dai teatranti. Sotto il Garigliano gli attori usano il termine «cadersene» del teatro come per implicare una certa sua soddisfazione nel successo dei suoi ospiti. Caduta simbolica da cui ogni palcoscenico rinasce più robusto che pria. Quando, però, i teatri crollano nella storia cupa degli uomini distratti o bruciano non di entusiasmi, ma di mano speculatoria e criminale, allora risorgono con difficoltà, ritardi, fatica.

In Italia teatri e boschi sono ad alto rischio di fiamma. Si fa fatica a farli funzionare come tali. Si fa fatica ad ammettere che sono uno metafora dell’altro. Tra gli artisti, salvo il chiasso di qualche eccezione, i commiati sono più discreti. La storia dello spettacolo, in questo, è più elegante dello spettacolo della storia. Con l’eleganza imperterrita della natura: «Fa più molto più rumore un albero che cade che una foresta che cresce» dice il saggio. Certi politici, peraltro, non si ustionano del sacro fuoco dell’arte: e i teatri, appena riaperti, li chiudono. Forse temono che, se provassero a farli produrre, magari con professionalità e mestiere, la cosa farebbe «cadere» il teatro dagli applausi e dalle risate: quelli del pubblico felice.

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