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Dove sta l’acqua va l’altra acqua

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

Acqua

La sete nel mondo ricco è antica perché è una sete maligna inestinguibile dai temporali perché è sete di giustizia

Martedì 21 Marzo 2023, 16:35

Mio padre, citando suo padre, il quale, probabilmente, citava altri saggi di piazza grande o farmacia, sentenziava che «dove sta l’acqua va l’altra acqua». E non sentenziava in Italiano, ma in dialetto bitontino con quelle sonorità caratteristiche della parlata del mio paese che sembrano imitare una lenta e pigra risacca fiumarola nello scorrere della loquela pugliese così cantabile.

Io, bambino, pensavo che mio padre sentenzioso alludesse all’acqua «acqua», quella che cade dal cielo ed è pioggia o a quella, rara dalle nostre parti, dei fiumi o torrenti, o a quella capricciosa di onde arruffate del mio Adriatico domestico della placida radura marina che era, allora, Santo Spirito. I miei padri allegorizzavano e, per acqua, intendevano la ricchezza del denaro, quell’essere facoltosi che conferisce potere.

Volevano dire, rassegnati, che la ricchezza tende ad assommarsi e non solo per la rapacità esosa delle eredità famigliari così esclusive, ma anche per una sorta di fatalità che sembrava ispirarsi alla constatazione di Max Weber il quale intravedeva nel successo del capitalismo consolidato la dimostrazione che Dio è dalla parte di coloro che diventano ricchi, visto che elargisce fortuna e successo negli affari e nell’accumulazione di beni come prova della sua benevolenza. Gli increduli lettori potranno abbeverarsi, è il caso di dirlo, consultando il celebre saggio di Weber sull’etica del capitalismo e sul Protestantesimo.

Mio padre, forse, aveva letto il libro, mio nonno no di certo, ma s’erano trasmessi quella particola di saggezza: «Dove sta l’acqua va l’altra acqua». Oggi, l’altro ieri per chi mi legge, che l’acqua, quella reale, non l’acqua metaforica, scarseggerà drammaticamente per via della crisi economica e sociale dovuta alla guerra infame di Putin contro il mondo, guardo al tardivo temporale già perentoriamente autunnale e puntiglioso che sta inondando e, spero, solo benedicendo, gran parte d’Italia. Lo spio e m’incanto scrutando la bella forza naturale che dilaga sulla nostra terra meridionale sitibonda. Ecco: sitibonda. Dicevano proprio così i padri pensatori che mio padre leggeva: i Nitti, i Salvemini, i Di Vittorio i Tommaso Fiore. Gli stessi che rabbrividivano di sgomento e s’ostinavano ad indignarsi quando l’acqua, quella metaforica, l’allegoria del denaro e del potere, si studiava di assecondare il corso ingiusto del privilegio e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e impetravano da un cielo, che non poteva essere avaro, sfruttatore e Weberiano, più pioggia e più giustizia sociale. Dicevano «sitibonda» per radicare il linguaggio nella parlata colta, quella pensosa degli studiosi che si dissetano con l’ottimismo della volontà, pur bruciando nell’arsura del pessimismo della ragione.

Essi sapevano, come mio padre m’insegnò, che la sete della nostra terra non era stata una decisione di Dei esosi e incontentabili che avevano disertato le nostre contrade e i nostri mari, ma colpa di uomini avidi, ingiusti, accumulatori, dispendiosi del ben di Dio che c’è stato donato e che, per dirla con Dostoevskij, pur vivendo in un paradiso, non si curano di saperlo. La sete nel mondo ricco è antica, dunque, perché è una sete maligna, inestinguibile dai temporali, perché è sete di giustizia. È la conseguenza di soperchierie sugli uomini e di rapacità sulla natura sfruttata senza ritegno e senza alcuna prudenza. La disastrosa rapina e la meticolosa demolizione dell’ambiente, conseguenza, è solo una rudimentale constatazione, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, hanno massacrato anche la vita dell’acqua. Eppure la natura non era stata avara quando i progenitori avevano cominciato a dialogare in Greco con lei e a raccontarle di antichi eroi fondatori di città, cittadini coraggiosi e intraprendenti in grado anche di trapiantare l’ulivo della pace e della prosperità nella terra ospitale di là dal mare. Sono state le troppe età del ferro ad inasprire la terra e ad inaridire l’alleanza tra gli esseri umani.

La Puglia nostra, per esempio, diventa sitibonda quando i suoi abitanti devono constatare la metafora rassegnata dell’acqua della ricchezza che raggiunge fatalmente l’altra acqua stagnante dell’opulenza accumulata senza giustizia sociale. La tempesta climatica con cui stiamo pagando le conseguenze dei terribili danni al pianeta portati da una umanità che sembra ignorare la prudenza, i nubifragi che devastano intere regioni facendo ammutolire gli amministratori imbelli di questi tempi rinsecchiti e aridi non sono che l’ennesima, amara e rassegnata metafora. Piovere, deve piovere, ma deve essere un temporale armonico con la taciturna armonia del pianeta rispettato e custodito. “Scampato”, il temporale meteorologico, dispensiamo con saggezza l’acqua della giustizia sociale, sostanza delle democrazie che non si manifesta con subitanei e demagogici piovaschi. L’arsura delle disuguaglianze può lasciarci assetati. Proviamo una variante della metafora sociale: «dove c’è già l’acqua non occorre che ne piova altra».

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