Un trafiletto in terza pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 15 marzo 1974 avvisa i lettori che al Piccolo Teatro di Bari andrà in scena una novità, firmata Vito Maurogiovanni e Nicola Tabascio. Cinquanta anni fa nasceva “Jarche vasce”, una commedia in vernacolo barese ambientata nei vicoli della città vecchia. Con la regia di Michele Mirabella, ad esibirsi sul palco di Eugenio D’Attoma sono i già noti attori Nietta Tempesta, Mario Mancini – che contribuiscono alla sceneggiature con le proprie memorie familiari, insieme allo stesso Tabascio, Mariano Leone, Carmela Vincenti, Gianni Memeo, Dino Romita, Marcello Capozza.
Pochi giorni prima, il critico teatrale Egidio Pani è andato a vederlo in anteprima al Centro sociale della Sudsider. «Si confondono, sotto il basso arco di Bari Vecchia appena accennato sulla scena e segnato da lampadine colorate come alla festa del Patrono, mestieri e sentimenti della vita di ogni giorno del popolo. E l’arco pare racchiudere l’arco stesso di una vita: ora le tristezze novembrine, ora le allegrie familiari del Natale, ora il Carnevale, corteo di baldoria e di languori, ora la Pasqua con le nostre Processioni del Venerdì Santo, dove il popolo ripete i culti con l’angoscia di un dolore e di un mistero ritrovati, ora la festosità di una spaghettata familiare ed il sonno, il lento e calmo sonno che da il riposo e la pace. Divertente, con una comicità a volte scontata ma percorsa da una nota di tristezza che corre nello spettacolo a segnare l’eterna tristezza stessa del sentimento popolare, “Jarche vasce” è ravvivato da continue invenzioni sceniche, con perfetta fusione degli attori, accorto uso dell’emozione musicale, saettanti illuminazioni».
Lo spettacolo riscuote da subito un grande successo: già un anno dopo si supereranno le 150 repliche e ancora oggi è unanimemente considerato una pietra miliare del teatro popolare pugliese. «Moro è vivo» titola a caratteri cubitali «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 19 marzo 1978: un piccolo, effimero, respiro di sollievo dopo giorni di apprensione. Tre giorni prima, il 16 marzo, un commando delle Brigate rosse ha rapito l’on. Aldo Moro, uccidendo cinque uomini della sua scorta.
L’azione si è svolta in pieno giorno a Roma, in via Fani, nel quartiere di Monte Mario. Moro è stato l’artefice dell’accordo che solo pochi giorni prima ha portato il Partito comunista a fare il suo ingresso nella maggioranza di governo: in quelle ore il Parlamento avrebbe dovuto votare la fiducia al nuovo esecutivo. «Fotografato dai suoi rapitori sullo sfondo delle insegne delle brigate rosse, Aldo Moro – pur nelle particolari difficili circostanze in cui vive queste ore, e all’indomani di un orribile sanguinoso episodio che è costato la vita agli agenti della sua scorta, amici di ogni giorno, che egli chiamava paternamente “ragazzi”, delle cui vicende personali e familiari spesso si occupava – appare soprattutto come un simbolo della Dignità», scrive Oronzo Valentini nel suo editoriale.
A centro pagina la foto con la stella a cinque punte sullo sfondo, che tutti abbiamo purtroppo imparato a conoscere: è stata ritrovata da un redattore de «il Messaggero» in una cabina telefonica, insieme ad un volantino in cui le Br rivendicano il rapimento del democristiano e la volontà di sottoporlo ad un processo da parte di un “tribunale del popolo”, senza chiedere alcun riscatto né la scarcerazione di compagni. Il giorno prima, intanto, si sono svolti a Roma i solenni funerali per le cinque vittime dell’attentato di via Fani. Tra di loro c’è anche un pugliese, Francesco Zizzi: quasi trent’anni, di Fasano, Zizzi quel giorno sostituiva un collega malato e – si sarebbe scoperto più tardi – per la prima volta prestava servizio di scorta per il Presidente della Dc. Nella basilica di San Lorenzo più di centomila persone: c’è anche la moglie di Moro. La salma di Zizzi giunge a Fasano subito dopo le esequie: sulla «Gazzetta» del 20 marzo la cronaca della cerimonia funebre che si è svolta nel paese natale della vittima. Tutta la Puglia si è stretta intorno alla sua bara, ai suoi disperati genitori, alla sua fidanzata Eugenia, alle sue sorelle. «Si è conclusa così la breve esistenza di quest’altro emigrante del Sud, che rispondeva a chi lo invitava a tornare a casa sua e cambiare mestiere: “ma il pane sicuro chi me lo da?” [...] Il dramma che accomuna tanti uomini del Sud è sempre lo stesso, quello di tornare alla propria terra e con tante illusioni che sono rimaste soltanto tali e in una bara coperta con il tricolore offerto dal presidente della Repubblica e gli onori delle autorità», scrive Vittorio Bruno Stamerra.