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L’inferno di Marcinelle e il dramma delle migrazioni

 
Annabella De Robertis

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Annabella De Robertis

L’inferno di Marcinelle e il dramma delle migrazioni

È il 15 agosto 1956 e «La Gazzetta del Mezzogiorno» riporta in prima pagina gli aggiornamenti sul disastro consumatosi una settimana prima

Sabato 19 Agosto 2023, 14:23

«Torno dall’inferno, ha fatto in tempo a scrivere sul suo libretto di lavoro il capo del gruppo dei minatori uccisi dall’ossido di carbonio a livello 835». È il 15 agosto 1956 e «La Gazzetta del Mezzogiorno» riporta in prima pagina gli aggiornamenti sul disastro consumatosi una settimana prima nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, nei pressi di Charleroi, in Belgio. «Lo hanno riconosciuto subito dal casco elettrico e dall’elmo con la lampada fissata alla sommità, che aveva in capo», scrive l’inviato Ferruccio Troiani. «Anche lui, come gli altri, fuggendo nel fuoco, ha sperato di trovare salvezza più in alto, inutilmente».

Alle 8.10 dell’8 agosto 1956 è scoppiato un incendio nel condotto che portava l’aria dentro i tunnel sotterranei della miniera, profonda oltre mille metri, provocando enormi colonne di fumo che hanno reso complicatissimi i soccorsi. Solo tredici, infatti, sono i superstiti tirati fuori nelle ore immediatamente successive all’incidente. La complessa macchina dei soccorsi è ancora attiva dopo sette giorni: «questa mattina, alle ore 6, erano ventuno i morti riportati alla superficie attraverso il pozzo n. 3, quello che era in costruzione al momento della sciagura. Tra i ventuno, nove sono stati identificati. Tra questi nove, sei sono italiani». Il bilancio, alla fine delle due settimane di operazioni di salvataggio e di recupero delle salme, sarà di 262 vittime, di cui 136 minatori italiani. La presenza di così tanti connazionali nella località belga si spiega con il Protocollo italo-belga stipulato nell’immediato dopoguerra, che prevede l’invio di operai in Belgio in cambio di carbone a prezzo preferenziale. Gli italiani che accettano di trasferirsi ottengono un alloggio e la possibilità di frequentare un corso di formazione, ma le condizioni di vita si rivelano presto molto lontane da quanto è stato loro promesso. «Pensiamo che sia opportuno dare notizia, prima che se ne perda memoria, del comportamento di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, prestano volontariamente la loro opera per lenire i dolori di Marcinelle, per riparare la sciagura», commenta Troiani. L’Amministrazione comunale di Bari, si legge sul quotidiano, ha deciso all’unanimità di erogare un sussidio a favore delle famiglie delle vittime e di mettere a disposizione gli istituti di Giovinazzo, Bitonto e Noicattaro per ospitarne gli orfani: si conteranno ben 22 minatori pugliesi coinvolti nella strage, molti dei quali originari del basso Salento. A seguito di un’inchiesta si stabilirà che il disastro è stato provocato dall’errato utilizzo degli ascensori che portavano nel sottosuolo. Le responsabilità, invece, non saranno mai individuate: i dirigenti della miniera verranno assolti pochi anni dopo dalle accuse di inadempienza, mentre nel 1961 si arriverà alla condanna dell’ingegner Adolphe Cilicis, direttore dei lavori dell’impianto.

Il dramma dell’emigrazione dalle regioni meridionali, tuttavia, non si esaurisce in quegli anni: il 19 agosto 1973 sulla «Gazzetta» si legge di un «assalto ai treni per il rientro dei lavoratori al nord». Cinquant’anni fa le Ferrovie dello Stato programmano sei treni straordinari da Bari e quattro da Lecce, Foggia e San Severo per il ritorno degli emigranti pugliesi dopo le ferie di Ferragosto. Nonostante l’eccezionale intervento, si rende necessario raddoppiare il numero dei convogli per consentire le partenze. La stazione di Bari, denuncia il nostro giornale, è però inadeguata per gestire l’esodo di massa: troppo stretti i marciapiedi, che non riescono a contenere il numero dei bagagli, piccole le sale d’attesa. Le stesse scene si registrano a Foggia: «Tornano al Nord. Si portano dietro struggenti pensieri di nostalgia e una lunga lista di dolci ricordi: il tepore del sole, un pezzetto di cielo azzurro e pulito, un angolo di strada, la casetta al paese con l’orticello e l’albero di fico, il sapore del nostro pane rustico. La vita matrigna di queste parti li costrinse un giorno a cercare fortuna nel convulso mondo industriale del settentrione. Vanno e vengono: ogni volta ripetono, avanti e indietro, quel cammino che li vide emigranti». È il destino condiviso – ancora oggi, sebbene meno di allora – da fin troppi pugliesi.

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