Professor Tito Boeri, economista e già presidente dell’Inps (2014-2019), che tipo di crisi stiamo attraversando? «È una crisi che ha generato nuove disuguaglianze, da sommare alle vecchie, e ha colpito i soggetti più vulnerabili in maniera doppia poiché alla dimensione economica si è aggiunta anche quella sanitaria. Le comunità più fragili hanno pagato lo scotto due volte. Senza contare che le precedenti recessioni, come quella del 2008, si erano abbattute prima sui mercati finanziari e poi sulle famiglie, dandoci modo di organizzare politiche di contrasto. Questa volta non è stato così. Abbiamo dovuto abbassare le saracinesche dall’oggi al domani».
Quali sono i soggetti più colpiti?
«L’impatto più grave è stato su piccola impresa, artigianato, ristorazione, lavoro autonomo. La crisi si è accanita con chi non aveva ammortizzatori sociali, costringendo l’esecutivo a ideare strumenti inediti. E poi le donne, più colpite degli uomini, non solo in virtù dei settori maggiormente travolti, come il turismo, ma anche perché la chiusura delle scuole le ha spesso costrette a rinunciare al lavoro innescando un meccanismo terribile: studenti senza scuole e donne senza occupazione. La chiusura delle scuole ha bloccato il principale ascensore sociale, riducendo la possibilità di chi sta in basso di migliorare la propria condizione».
Lo strumento principe di difesa sociale, da qualche tempo a questa parte, è il reddito di cittadinanza presente sulla scena ormai da abbastanza anni per darne un giudizio. Sta funzionando?
«Ho sempre ritenuto necessaria l’esistenza di uno strumento universale di contrasto alla povertà, costruito guardando alle condizioni di reddito delle famiglie. Il problema è il modo in cui è stato introdotto in Italia. Troppi errori». Proviamo a elencarli. Da dove comincia - mo? «Innanzitutto è eccessivamente generoso con le persone singole: 960 euro al Sud sono tanti anche alla luce del costo della vita. Le famiglie numerose, che poi sono quelle con più problemi, ricavano un beneficio decisamente minore. E sempre a proposito di famiglie pesa troppo la condizione patrimoniale: la prima casa, quella dove si vive, in realtà è un bene illiquido».
Cos’altro non va?
«Il reddito non tiene conto degli incentivi che ci sono nella ricerca del lavoro, scoraggiando quest’ultima. E, infine, è poco inclusivo: tra i requisiti ha pesato anche la necessità di aver avuto una residenza in Italia negli ultimi dieci anni. In questo modo, moltissimi immigrati regolari sono rimasti fuori».
Quindi, professore, il bilancio è negativo.
«Non è un caso che, di fronte alla crisi innescata dal Covid, abbiamo dovuto inventarci tantissimi altri strumenti. Se il reddito di cittadinanza fosse stato studiato meglio non ne avremmo avuto bisogno. Alla fine il punto è uno solo: c’è bisogno di una misura universale e dunque va mantenuto ma è anche necessario riformarlo pesantemente».
Concorda con chi sostiene che in Italia ci sono troppe misure assistenziali e poche «politiche attive» di accesso al lavoro?
«Sicuramente le politiche attive sono un problema rilevante. Non abbiamo un servizio pubblico per l’impiego degno del suo nome. Creare una agenzia ad hoc a livello centrale, senza che questa abbia una vera e propria banca dati, è un’ope - razione sbagliata. Ricostruire le carriere dei lavoratori, i sussidi che ricevono e capire quali sono per loro le opportunità di impiego è invece il passaggio cruciale: l’Anpal è un contenitore vuoto e spezzettato. Sarebbe stato meglio immaginare una struttura parallela a quella dell’Inps con accesso elle banche dati e capace di aiutare i servizi per l’impiego a coordinarsi ».
Restiamo sulla questione lavoro: l’ha convinta la via scelta dall’esecutivo nella reddito di cittadinanza presente sulla scena ormai da abbastanza anni per darne un giudizio. Sta funzionando?
«Ho sempre ritenuto necessaria l’esistenza di uno strumento universale di contrasto alla povertà, costruito guardando alle condizioni di reddito delle famiglie. Il problema è il modo in cui è stato introdotto in Italia. Troppi errori». Proviamo a elencarli. Da dove comincia - mo? «Innanzitutto è eccessivamente generoso con le persone singole: 960 euro al Sud sono tanti anche alla luce del costo della vita. Le famiglie numerose, che poi sono quelle con più problemi, ricavano un beneficio decisamente minore. E sempre a proposito di famiglie pesa troppo la condizione patrimoniale: la prima casa, quella dove si vive, in realtà è un bene illiquido».
Quali sono i soggetti più colpiti?
«L’impatto più grave è stato su piccola impresa, artigianato, ristorazione, lavoro autonomo. La crisi si è accanita con chi non aveva ammortizzatori sociali, costringendo l’esecutivo a ideare strumenti inediti. E poi le donne, più colpite degli uomini, non solo in virtù dei settori maggiormente travolti, come il turismo, ma anche perché la chiusura delle scuole le ha spesso costrette a rinunciare al lavoro innescando un meccanismo terribile: studenti senza scuole e donne senza occupazione. La chiusura delle scuole ha bloccato il principale ascensore sociale, riducendo la possibilità di chi sta in basso di migliorare la propria condizione».
Lo strumento principe di difesa sociale, da qualche tempo a questa parte, è il gestione del blocco dei licenziamenti?
«No, non mi convince. L’idea di una uscita graduale è ragionevole ma la scelta di prolungare il blocco per tessile e calzaturiero è poco comprensibile. Si tratta di settori strutturalmente in crisi già prima della pandemia e dunque ha poco senso “congelare” la situazione nella convinzione che, passata la tempesta, si potrà tornare a una normalità di fatto inesistente in fase pre-pandemica. In realtà, la crisi del comparto è strutturale e a ottobre saremo daccapo. Il tipo di ragionamento che è stato applicato al tessile può invece valere per quei settori momentaneamente piegati dalle conseguenze del Covid ma che, ripristinata la situazione precedente, hanno tutte le carte in regola per ripartire».
La pandemia ha segnato un ritorno decisivo dello Stato sulla scena. Si è aperta quindi una nuova fase?
«Lo Stato è intervenuto su tanti aspetti della nostra vita quotidiana in un modo che, in condizioni normali, non avremmo tollerato. Certo, è stato fatto per buone ragioni ma una volta usciti da questa fase non dovrà più accadere».
Dunque cosa resta?
«Andiamo verso una situazione in cui lo Stato sarà più presente di prima ma, proprio per questo, dovrà essere più efficiente, altrimenti il peso del suo ruolo diventerebbe non sopportabile. Tre sono, sicuramente, i nodi più rilevanti. La sanità, innanzitutto, perché negli ultimi tempi abbiamo imparato molto e sappiamo quanto ci sia da fare anche in Regioni indicate come eccellenze nazionali. Poi il sistema educativo con il ruolo fondamentale della scuola pubblica e degli insegnanti. E, infine, gli ammortizzatori sociali. Come allargarne la copertura in modo sostenibile è la vera sfida da affrontare».