BARI - «Parole parole parole», duettavano Mina e Alberto Lupo cinquant’anni fa, ironizzando su una storia d’amore ormai alla fine. «L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1000, per questo lui è il padrone», recitava il titolo di una commedia post-sessantottina di Dario Fo concepita a partire da una frase di don Lorenzo Milani, il priore della scuola di Barbiana.
Sul muro di quelle misere aule toscane del dopoguerra campeggiava il motto dei giovani americani ribelli «I care» («Ci tengo» - «Mi sta a cuore») che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen citò nel pieno della pandemia. Due parole per esprimere la compassione e la voglia di reagire del Vecchio Continen- te, o, per dirla con un termine in auge, la sua «resilienza»... Resilienza? «Ma come parlaaaa? Le parole sono importanti», urlava Nanni Moretti alla sbigottita giornalista che lo incalzava con una serie di frasi fatte in una scena di «Palombella rossa» diventata proverbiale.
Già, il giornalismo. Dei suoi, dei nostri vizi non smettiamo di parlare: il sensazionalismo, la tentazione del pettegolezzo politico o mondano, lo scarso interesse verso le esperienze sociali lontane dai riflettori, la difficoltà talora di «sciacquare i panni in Arno» nella temperie della Cronaca. Non si ragiona abbastanza, invece, circa le virtù del giornalismo: l’abitudine a verificare che il racconto corrisponda ai fatti, un vecchio e sempre valido antidoto alle falsità diffuse in rete (le cosiddette fake news), ma anche l’interpretazione dei fenomeni e dei caratteri del tempo, le analisi, le opinioni, e il controllo dei poteri. L’informazione è un esercizio di realtà, è un lavoro di mediazione nel rispetto della opinione pubblica. Lavoro che molti giudicano tra- montato, valutando più comodo affidarsi alla comunicazione diretta sui social. Peccato che quest’ultima spesso renda infantile il Lettore e lo trasformi in follower, in seguace acritico, in credulone. Non più opinione pubblica, dunque, ma pubblico tout court, platea mediatica, crapula di chiacchiere.
Un danno per la democrazia, come molti studiosi affermano non da ieri. Perciò abbiamo preferito ripartire dalle «Parole» per suggellare in semplicità e con un che di giocoso il 135° anniversario della «Gazzetta del Mezzogiorno» (1887-2022). Un lessico familiare, popolare, meridionale, composto da quindici parole. Ciascun protagonista di «Parola Mia» - scrittori, artisti, firme della Gazzetta - ne ha scelta una, contribuendo così al mosaico di incontri e conversazioni che si svolgono da stasera a lunedì 19 dicembre, a Bari, Foggia, Taranto, Lecce e Potenza (tutti a ingresso libero e senza necessità di invito, sino ad esaurimento posti). Grazie a Annabella De Robertis, Edoardo Nesi, Sergio Rubini, Domenico Procacci, Gianni Ciardo, Manuela Vitulli, Alessandro Vanoli, Vladimir Luxuria, Michele Mirabella, Valentina Petrini, Saverio Sticchi Damiani, Barbara Politi, Gaetano Cappelli, Cinzia Grenci. Grazie alle Autorità, agli Editori e ai colleghi delle nostre Redazioni che inter- verranno. Chi scrive si è riservato la parola «Gazzetta», protagonista nella biblioteca «la Magna Capitana» di Foggia per motivi legati a per- sonali radici affettive, che contano, eccome. Del resto, il ritorno della Gazzetta in edicola e sul web, la «nuova alba» dello scorso 19 febbraio dopo i mesi di chiusura, è stato salutato e accompagnato da un’ondata di affetto della comunità dei Lettori. La Gazzetta è al servizio di questa comunità che speriamo di non deludere mai. Parola nostra.