Ho incontrato Sigfrido Ranucci 20 giorni fa a Putignano, presentando - nell’ambito di una rassegna organizzata dall’associazione «Il tassello mancante» - il suo ultimo libro La svolta. Lo avevo già presentato nell’estate del 2024 e in entrambi gli appuntamenti il racconto è iniziato da un episodio che apre il libro e che spiega bene come e da quanto tempo il volto di Report è costretto a temere per l’incolumità personale sua e dei suoi cari.
Senza saperlo, Ranucci salvò una delle persone che probabilmente era stata incaricata di ucciderlo. «Ho sentito un giorno, rientrando dalla redazione, un grande schianto vicino casa e vidi un motociclista che era in una pozza di sangue perché si era reciso l’aorta femorale» spiega il conduttore di Report, che dal 2020 vive sotto scorta. «Chi è motociclista, come lo era mio padre, sa che in quel momento hai pochissimi minuti per intervenire e fermare l’emorragia, cosa che ho tentato di fare immediatamente. Questa persona aveva la mandibola spaccata, il casco quasi tolto, la motocicletta era senza bollo e senza assicurazione. Mi trovavo in questo contesto di emergenza e si avvicinava pure il proprietario della moto che cercava di portarla via prima che arrivasse la polizia. Poi è arrivata l’ambulanza e l’uomo è riuscito a salvarsi. Più tardi ho saputo il nome attraverso degli amici dei miei figli che sono lì a Pomezia e abbiamo ricostruito chi era questo personaggio legato ad ambienti di spaccio della zona. Era un giovane ragazzo albanese che avrebbe dovuto far parte di un gruppo di fuoco assoldato per mettere nel mirino proprio me. Non ho mai provato rammarico per averlo salvato da morte certa. Trovo consolazione nel pensare che quel mio salvataggio, mentre ero del tutto all’oscuro di chi stessi salvando, sia stato il frutto di una scelta più nobile, quella del bene comune sopra a ogni cosa, valore inalienabile dell’umanità».
Sono passati diversi anni da quell’inquietante episodio ma Ranucci non ha mollato di un centimetro, continuando a fare il suo mestiere di giornalista con la libertà di sempre. Certo, in compagnia dell’inseparabile scorta, con gli spostamenti sempre sottoposti a controlli e verifiche, rimedi necessari, e peraltro insufficienti come dimostrato dall’attentato dell’altra notte, per coniugare libertà e sicurezza.
Quanto accaduto a Sigfrido Ranucci non può lasciare nessuno indifferente. Colpire un giornalista vuol dire colpire la libertà di stampa, bene costituzionalmente tutelato. Colpirne uno per educarne cento è un detto del quale nessuno avverte la mancanza, ammesso e non concesso che ci siano altri 100 giornalisti come Ranucci in Italia. La solidarietà a Sigfrido non deve infatti aprire il consueto festival dell’ipocrisia sullo stato dell’informazione nel nostro Paese. Ci sono giornalisti che non hanno mai fatto una inchiesta in vita loro, non hanno mai letto un atto giudiziario, non sono mai stati per strada alla ricerca di fonti e notizie, non hanno mai provato il (piacevole) brivido di scrivere un articolo con contenuti così esclusivi da essere ripresi dagli altri giornali e dalle agenzie di stampa, non hanno mai sfidato le norme sempre più restrittive e le bombe (anche in un altro ordine) per mettere in pagina o portare in video scomode verità.
Un accanimento normativo senza precedenti e una editoria fiaccata dalla crisi e dai furti di contenuti operati dai giganti del web hanno reso merce rara i cronisti.
Noi della Gazzetta, nel nostro piccolo, abbiamo condotto inchieste che hanno causato terremoti politici e portato all’apertura di fascicoli di indagine. Non è stato facile, per i tanti grumi di interessi coinvolti, e non lo sarà nemmeno in futuro, almeno fino a quando non si comprenderà fino in fondo che la libertà di stampa è un costo obbligato per la democrazia, costo non scaricabile unicamente sulle tasche di giornalisti ed editori, e che la stampa è davvero libera se non deve periodicamente girare con il cappello in mano per sopravvivere.
Forza Sigfrido, siamo con te!!