Provate a immaginare un antropologo che negli anni ’50 si reca nel Sud Italia, Lucania e Salento, affiancato da una équipe di esperti - uno psichiatra, una psicologa, un’antropologa culturale, un etnomusicologo, un fotografo e un medico - per studiare un fenomeno come quello del tarantismo utilizzando filmati girati tra Copertino, Nardò e Galatina. Ernesto De Martino è per questo considerato uno dei più importanti antropologi dell’età contemporanea. Giovanni Pizza è professore ordinario di antropologia culturale e medica all’Università di Perugia, dove dirige la rivista AM della Società italiana di antropologia medica. È autore di numerose pubblicazioni tra cui Il tarantismo oggi. Antropologia, politica, cultura, edito da Carocci. Lo abbiamo intervistato per voi partendo da una riflessione sul grande antropologo italiano, Ernesto De Martino.
Professor Pizza, è d’accordo col professor Marcello Massenzio - forse uno dei più grandi divulgatori dell’opera di De Martino - quando parla del cliché di meridionalista applicato erroneamente all’antropologo napoletano?
«Sì concordo, È uno stereotipo che lo stesso De Martino avvalorò perché faceva gioco all’antropologia nello spazio pubblico italiano di quegli anni, quindi intitolò Sud e magia il libro del ’59. La questione meridionale era molto gettonata in quegli anni».
Professore, il punto centrale della riflessione antropologica di De Martino è la crisi del cordoglio o crisi della presenza che dà origine alla ritualità collettiva. Si tratta di una delle sue intuizioni più geniali. Ce ne parla?
«Amalia Signorelli, l’antropologa culturale che partecipò alla spedizione in Salento, dice che chiedere cosa sia la presenza è la più difficile delle domande. In realtà lui ci parla di presenza e crisi già nel 1948 in Il mondo magico che pure è stato ripubblicato da Massenzio per Einaudi. In quel libro De Martino definisce la presenza un elemento fragile nell’uomo che la magia è destinata a reintegrare attraverso lo sciamano, questo “Cristo magico” che assume su di sé la crisi della presenza, cioè il rischio di non esserci, e la modella socialmente».
Lei è autore del libro Il tarantismo oggi, antropologia, politica, cultura, edito da Carocci, in cui parla della trasformazione del tarantismo nel Salento contemporaneo. In che senso?
«In senso patrimoniale. Ho cercato di osservare cosa era il tarantismo e cosa è diventato all’epoca di quelli che sono stati definiti “processi di patrimonializzazione” che sono sempre più mercificazioni. Per esempio a Galatina, sede della cappella di san Paolo per la cura rituale del tarantismo, c’erano dei valorizzatori dei beni culturali che ti conducevano a vedere i luoghi visitati da De Martino e dalla sua équipe. Inoltre la sottosegretaria leghista Borgonzoni ha chiesto che la pizzica, la danza del tarantismo, diventasse patrimonio dell’umanità. Io ho cercato di studiare questo fenomeno».
La crisi della presenza in De Martino rappresenta un universale antropologico culturale, la fragilità dell’umanità in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Prima esisteva un rito come gestualità, messa in scena, teatro che cooperava alla elaborazione del dolore. Questa dimensione collettiva l’abbiamo smarrita. Oggi tutti (ma soprattutto gli adolescenti) non abbiamo più il supporto della dimensione collettiva e viviamo il dolore in modo intimo e strettamente personale, siamo più soli. Le conseguenze sociali sono quelle che vediamo, una escalation di violenza per l’incapacità di gestire il disagio esistenziale. È d’accordo ?
«Certo c’è il rischio del trionfo dell’individuo sulla collettività, io dico di piú: le guerre attuali ne sono l’immagine reale. È un tempo in cui la crisi della presenza demartiniana rivela la sua attualità. Forse per questo De Martino è così richiesto, ma se siamo disposti a rileggerlo e a dare importanza alla sua antropologia possiamo scongiurare quel rischio. Per esempio in La fine del mondo c’è un passo sulla bomba atomica che ridiventa attuale per le minacce della Russia».
Marcello Massenzio, già ordinario di storia delle religioni all’Università Tor Vergata di Roma, dichiara in uno dei tanti convegni da lui presieduti a proposito del pensiero demartiniano “la crisi della presenza sconvolge ma bisogna assumerla per stemperare gli elementi più drammatici della esistenza”. È quello che accadeva nel fenomeno del tarantismo o nelle pratiche magiche del mondo contadino studiate da De Martino?
«Sì, accadeva questo, il riscatto della presenza minacciata; è un meccanismo che l’antropologia oggi conosce bene, ma che de Martino fu il primo a studiare in Italia. La crisi della presenza vuol dire anche che la presenza stessa si reintegra nella storia dopo aver subito una minaccia. Questo ci insegna De Martino che ha anche pubblicato un primo libro, edito da Laterza, nel 1941, nel quale apriva la via italiana all’antropologia: Naturalismo e storicismo nell’etnologia».
















