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Ernesto De Martino, il grande equivoco

Ernesto De Martino, il grande equivoco

 
Carmen Palma

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Carmen Palma

Ernesto De Martino, il grande equivoco

Mito, rito e religiosità polare, nella visione dell’antropologo napoletano, prescindevano totalmente dagli archetipi e dagli assoluti tanto cari a Eliade e gli altri

Lunedì 10 Novembre 2025, 06:57

Ernesto De Martino fu sostanzialmente un incompreso. Originale e poliedrico nella sua ricerca, audace nelle tesi, disordinato negli apparentamenti politici. Sbandava tra un’ortodossia ottusa, da frate inquisitore, ed un’eterodossia da eterno pioniere di qualcosa. Ha finito per farsi amare dai suoi nemici e scomunicare da quelli che avrebbe voluto fossero suoi alleati. E invece non lo furono mai, se non a sprazzi. Una vita nell’equivoco. «De Martino è solo perché non c’è nessuno che capisca quello che dice», ha scritto giustamente Carla Pasquinelli.

C’ha messo del suo, però. Antropologo, etnografo e storico delle religioni fu fascista in gioventù, per scelta e non per costrizione. Iscritto ai Guf, alla Milizia universitaria, collaborava con l’Universale di Berto Ricci. Amava Ugo Spirito e leggeva Giovanni Gentile. Credeva realmente che dal fascismo potesse venir fuori una religione civile - mondana o mistico-mondana - che riuscisse a disegnare un orizzonte di senso. Poi l’incontro con Benedetto Croce e il circolo dei crociani arroccati nella barese Villa Laterza. Nell’ordine fu antifascista, parte attiva della Resistenza, rappresentò il Partito italiano del Lavoro al Cnl. Poi la fase socialista, da segretario della sezione di Bari e da commissario di quella di Lecce. E, infine, il Partito comunista, l’ultima chiesa da cui uscì deluso, anzi scomunicato. Fu Palmiro Togliatti in persona, durante una commissione culturale nazionale dell’aprile 1952, a liquidarlo così: «Le più varie correnti di rinascita spiritualistica e irrazionalistiche sono alimentate con i mezzi più diversi e bizzarri, che vanno dalle cosiddette poesie che nessuno sa cosa siano e cosa voglian dire, alle serissime indagini sulla validità conoscitiva della stregoneria e alla descrizione analitica dell’animo del pederasta attivo e passivo». Una pietra tombale, non tanto sulle ricerche, quanto sulla loro spendibilità politica.

Eppure, De Martino si era speso non poco, sporcandosi le mani e pure la coscienza, per il partito. Era stato lui a definire Cesare Pavese, quattro giorni dopo il suicidio, “politicamente sospetto” in una infelicissima lettera inviata a Giulio Einaudi. Se ne pentirà troppo tardi, affidando questo e altri rammarichi a qualche verso zoppicante (“restò a me / il gusto amaro / di una pietà troppo tarda / ed il rimorso / di una disattenzione impietosa”). All’origine dei dissidi la celebre collana “viola” della Einaudi che Pavese, raro uomo libero fra i prelati delle chiese rosse e rosate, avrebbe voluto infarcire di autori scomodi, oltre i già pubblicati Dumezil e Kerenyi: Junger, Spengler, Eliade, Guenon. Da qui l’agitazione di De Martino per il debordare dell’“irrazionalismo scientificamente errato”, nonostante quegli autori avessero aperto una strada in cui lui stesso si era infilato, seppur senza debiti espliciti.

Mito, rito e religiosità polare, nella visione dell’antropologo napoletano, prescindevano infatti totalmente dagli archetipi e dagli assoluti tanto cari a Eliade e gli altri. Erano, piuttosto, da intendersi come meccanismi di difesa storicizzabili messi in campo da quella società, in quel momento e di fronte a una crisi specifica. Che, poi, era sempre una “crisi della presenza”, di un perduto essere nel mondo e nella storia, da riannodare riferendosi a una dimensione fuori dal tempo e fuori dal contesto. Sempre uguale, sempre certa. Una sorta di ospedale celeste in cui ricucire le ferite e ricomporre le fratture di quaggiù. Non invenzioni né superstizioni, quindi, ma dispositivi pratici che replicavano modelli mitici e confortanti. Una simile lettura (“la luce della spiegazione”) sembrò, a prima vista, restituire dignità alla cultura delle plebi del Sud e ai loro riti ma generò, a sua volta, un fraintendimento gigantesco. L’immusonito Pci, molto più a suo agio con il proletariato industrializzato del Nord che con i tarantolati del Salento, se ne disfece rapidamente: se de Martino aveva pugnalato Pavese definendolo “politicamente sospetto”, Togliatti decapitò lui liquidandolo, a conti fatti, come politicamente inutile (è il karma, bellezza).

Piuttosto, ad appassionarsi nel tempo a De Martino, fuori dal circuito accademico e dentro quello delle letture di consumo, furono nel tempo proprio i cultori di Eliade, di Guenon, di Evola. Tutta gente dalla fede incrollabile in archetipi e in assoluti, assetata delle parole d’ordine disseminate ovunque nei suoi libri (magia, rito, mito) ma sostanzialmente ignara del razionalismo di De Martino, delle sue tirate anti-iniziatiche, delle invettive contro il neopaganesimo di Evola, del suo desiderio incrollabile di emancipare i contadini del Mezzogiorno. Anche dal mito. Eppure, qualcosa ha attratto quel mondo. Qualcosa di irrazionale, di “magico”, appunto, che Marcello Veneziani ha individuato meglio di altri: «Ma quando De Martino si libera del razionalismo del suo tempo riaffiora la sua indole di uomo del Sud, non così lontano da quelli che studiava». Una contaminazione antropologica che potrebbe, alla lunga, aver sedotti alcuni e convinto altri a scaricarlo. Non lo sapremo mai. De Martino è un equivoco. E l’equivoco continua. 

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