Cominciare dal film di Francesco Rosi, Cristo si è fermato a Eboli (1979), è d’obbligo nel rapporto dell’autore cinematografico con quello letterario, e aggiungeremmo pittorico, Carlo Levi, il quale peraltro aveva contributo direttamente in tante sceneggiature collettive dagli anni Trenta agli anni Sessanta. Eppure Levi con Rosi c’entra da prima. Prima cioè del (dis)adattamento cinematografico e soprattutto televisivo dell’originale del 1945. Per dire che nell’orizzonte visivo, politico e concettuale di Rosi Cristo si è fermato a Eboli comprende anche le “pennellate ondulate” dei dipinti leviani e un testo chiave, espressamente citato, come L’orologio (1950), quindi la disamina sempiterna tra i faticatori “contadini” e gli improduttivi “luigini”, questi ultimi in crescita esponenziale dentro le maglie occulte della tecnocrazia e de-responsabilizzazione in atto camuffata da intelligenza artificiale e sistematica. La genealogia del loro sodalizio risale infatti a Salvatore Giuliano, girato nel 1961 ma uscito solo l’anno successivo, contribuendo ad accelerare l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia, su disegno di legge di Ferruccio Parri ed altri senatori, votata unanimemente dal Senato e approvata in via definitiva l’11 aprile del 1962. Non era allora scontato stare dalla parte di Rosi, ovvero di Salvatore Giuliano, quindi della Commissione parlamentare che puntava ad appurare che la mafia esisteva, andava studiata e combattuta.
Levi fu dunque tra quelli che già nel 1961, la definirono «un’opera giusta. È giusta sul piano poetico, ed è giusta sul piano della realtà e della sua interpretazione. E così giusta che nessuno dei molteplici aspetti di essa che la rendono complessa e talvolta oscura rimane estraneo al film che si potrebbe dire determinato a una visione storica precisa nel cui giudizio tutti trovano il giusto posto. E questo giudizio non si distingue dall’espressione poetica che ci offre l’immagine vivente della Sicilia». E Tullio Kezich, sul set: «È arrivato Carlo Levi, letteralmente evocato come Madama Pace nei Sei personaggi di Pirandello. Il suo nome è ricorso tante volte nei nostri discorsi, in queste settimane, che ci fa una strana impressione trovarcelo davanti, con il panciotto da contadino e la camicia a righe e fiorellini. “È la stoffa per camicie che prediligono i cafoni nella Lucania di Levi ridendo — e ho faticato tanto per trovarla. Poi ho scoperto, pensate un po’, che la fabbricano a Bolzano”. C’è in Levi un gusto infantile del travestimento, accanto a una generosa tendenza alla mimetizzazione con il sud che adora. Questo antifascista piemontese, medico e razionalista, sotto il meridiano di Roma diventa una matrice di miti. Gli intellettuali palermitani vedono in lui lo scrittore che ha fatto conoscere a tutto il mondo i problemi del sud e gli si stringono intorno come assiderati intorno a una stufa calda, in cerca di conforto, di parole da ripetere agli amici scettici o stanchi». E Rosi, con Tonino Guerra e Raffaele La Capria, affrontando il romanzo dopo trent’anni, è consapevole dell’industrializzazione avvenuta nel frattempo nel Nord Italia, del conseguente esodo dalle campagne specialmente meridionali, dei flussi migratori, dell’urbanizzazione selvaggia e dell’istruzione di massa che hanno trasformato storicamente il quadro di riferimento leviano. Sa che la civiltà contadina è scomparsa; rievoca quindi quest’ultima non tanto come orizzonte alternativo alla società borghese-capitalistica avanzata. Non si sofferma sui valori positivi e universali del mondo magico lucano, né intende cedere al puntiglio etnologico, avallando eventuali equivoci folcloristici.
La denuncia lascia insomma il posto alla constatazione di una diversità non risarcibile tra i “contadini” di ieri e i “luigini” non soltanto di ieri, responsabili di aver arrecato danni alla questione meridionale e alla politica attiva, di aver fatto registrare numerose sconfitte, e di aver prodotto una sorta di fascismo permanente in chiave di mentalità “luigina” diffusa. Per questo, piuttosto che sui contadini, si concentra molto sui personaggi piccolo-borghesi: sui notabili spesso e volentieri punta l’indice, evidenziandone il ridicolo (il barone), il senso tragico (il don Trajella, secondo Goffredo Fofi, «prete-intellettuale fallito perché fallita è la sua missione di integrazione tra ideologia e mondo magico contadino che non accetta la sua funzione di cane da guardia della piccola borghesia»). Resta lo spazio tra questi personaggi e il personaggio Levi per riformulare il romanzo in termini dialettici con le reazioni esterrefatte, l’idiozia pur bonaria e paternalista di don Luigino, interpretato dall’attuale compianto Paolo Bonacelli, all’ironia aristocratica di Levi, intellettuale “contadino”, settentrionale.
















