Come ha scritto Italo Calvino sulla rivista Galleria, nel 1967, Carlo Levi (1902-1975) «è il testimone di un altro tempo all’interno del nostro tempo, è l’ambasciatore di un altro mondo all’interno del nostro mondo». In questo suo essere qui e altrove (ma anche né qui né altrove), nel suo coabitare un dentro e un fuori che solo ad alcuni è dato di poter fare, Levi, reso celebre dal suo Cristo si è fermato a Eboli del 1945, ha percorso, prima di ogni altra, la strada della pittura.
Dopo la laurea in Medicina, già poco più che ventenne si è dedicato alla pratica pittorica, ispirandosi tanto a Felice Casorati quanto alle tendenze post-impressioniste della Parigi di fine anni Venti. Animatore dei “Sei di Torino” – insieme ai pittori Enrico Paulucci, Nicola Galante, Jessie Boswell, Francesco Menzio e Gigi Chessa –, soprattutto nei suoi ritratti e nei suoi nudi, realizzati tenendo fede a un piglio antieroico e a un espressionismo dal gusto francese, Levi pensa alla pittura come a una pratica (para)politica. Anche quando serpeggiano impliciti riferimenti al mondo biblico o mitologico, anche nei paesaggi naturali e urbani che tematizzano, non solo il suo vissuto, ma, in un senso più generale, il rapporto tra uomo e natura, egli concepisce l’impegno artistico connesso alla necessità di un progetto politico e culturale che possa realizzare la rivoluzione antifascista. Questo perché, come scrive nel testo Paura della pittura (1° luglio 1942), nell’arte, l’occhio e lo spirito parteggiano per il profondo, «ai limiti dell’umano», spingendosi «nei luoghi della più spenta miseria e del più giganteggiante orgoglio – più giù, nelle tenebre elementari della Paura di esistere».
C’è un profondo senso del limite e della fine nel gesto pittorico di Levi, perché è esattamente in questa cornice che egli colloca la pittura. La visione leviana tiene insieme lo sviluppo dell’umanità, la tragedia esistenziale e la pittura, che può essere pensata solo a patto di considerarla «specchio divinatorio della crisi del mondo e dell’uomo», «oracolo, misterioso nella sua semplice chiarezza, di un pericolo mortale». Paura dell’esistenza, paura della libertà e paura della pittura sono forme di uno stesso processo, perché è la vita stessa, così come l’individuo, a essere un’opera d’arte, intesa come luogo di tutti i possibili rapporti, «senza limiti, se non infiniti».
Noi siamo assenti, estranei al mondo e a noi stessi, timorosi, benché desiderosi di esistenza e di libertà, attraversati da un terrore fondamentale e primordiale: rispetto a questo stato di cose, rispetto a questa condizione di disorientamento e desolazione, «la pittura non è più espressione creatrice, ma magia, strumento di impossibile salute». È forse come la promesse du bonheur [promessa di felicità] di cui parla Stendhal e che Adorno attribuisce all’opera d’arte, precisando, tuttavia, che si tratta di una promessa che non può (non deve) essere mantenuta. L’arte non può effettivamente mantenere questa promessa perché deve farsi carico della tragedia umana, delle lacerazioni del senso, di quella che Levi chiama «la paura del deserto dell’anima desolata». Scrive ancora Levi: «Il terrore della libertà ci fa estranei al mondo, e lo popola di mostri. Se l’individuo creatore non ha limiti fissi, le “ombres peureuses” [ombre spaventose] cercano invece nei limiti la sola possibile difesa dalla sconfinata solitudine; e adorano ogni limite, sola certezza a chi è privo di ogni sostegno. E la pittura che nasce da questo mondo è un tentativo di salvezza, rassegnata o ribelle, se essa ci mostra Les géographies solennelles des limites humaines [le geografie solenni dei limiti umani]».
È come se l’intellettuale torinese condividesse il punto di vista di tutti quei filosofi e quegli artisti che, soprattutto nella prima metà del Novecento, hanno sostenuto la necessità di attribuire all’arte una funzione politica che, non presentandosi obbligatoriamente nella forma esplicita dell’impegno militante, possa porsi come catalizzatore critico, senza perdere nulla in termini di ricerca espressiva e di poesia. La produzione pittorica di Levi non può che essere interpretata alla luce del suo modo d’intendere l’arte e la prassi artistica, inevitabilmente intrecciata, quest’ultima, con la dimensione puramente storico-antropologica. Destino dell’uomo, destino della libertà e destino dell’arte sono amalgamati in un corpo unico, ciascuno si spiega anche in relazione agli altri e trova in essi la propria ragion d’essere. Ciononostante, scrive Levi, il futuro non si prepara con i pennelli, ma nel cuore degli uomini. Dopo aver seguito gli Dei fino all’inferno, prosegue, aneliamo a risalire verso la luce e a germogliare nuovamente, perché, in definitiva, «dal sommo della paura nasce una speranza, un lume di consenso dell’uomo e delle cose. […] La guerra dell’uomo con se stesso è finita, se davvero l’arte ci indica il futuro, e se possiamo leggerlo sul viso e nei gesti degli uomini. E forse è nato chi prepara, nei quadri, l’annuncio della fine della separazione, l’amoroso sorgere di una pittura senza terrore».
















