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La vita come ricerca, sempre a caccia di una rivelazione

La vita come ricerca, sempre a caccia di una rivelazione

 
Luisa Ruggio

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Luisa Ruggio

La vita come ricerca, sempre a caccia di una rivelazione

Il mito e il rito stanno a Ernesto De Martino come un’anatomia altra, invisibile e necessaria quanto il suo stesso respiro

Lunedì 10 Novembre 2025, 07:02

Bisogna immaginarselo in un giorno come tanti nella diaristica della sua ricerca che combacia con la vita stessa, Ernesto De Martino. La sua storia di assoluta presenza nell’osservare è tutta rintracciabile, per esempio, nell’incontro con un vecchio pastore calabrese lungo una di quelle vie che nella Calabria de “La fine del mondo” erano perdizioni. Quello fu uno degli incontri che innescò nell’antropologo uno dei più potenti processi di rivelazione: De Martino stava cercando di orientarsi insieme ai suoi collaboratori, come un eroe di fiaba nelle tante novelle orali che riportano cronache immaginarie di sconfinamenti nei territori dell’inconscio o del cuore umano, questa rapa capace di fatare, era in cammino come Pollicino seguendo indizi invisibili, tracce peculiarmente umane, fiutando l’aria, quando vide il pastore al quale offrì un passaggio. 

Sin qui niente di strano, l’uomo salì a bordo dell’auto con tutta la diffidenza ereditata dalla sua educazione sentimentale, un misto di dubbio terragno e sesto senso accordato al sospetto e alla paura di perdere la strada maestra ovvero quella battuta dai suoi predecessori, imparata ripercorrendo le orme dei suoi padri, ripetendo infinite volte il gesto elementare che innesca l’andirivieni dei passi. In pochi minuti, non appena l’auto di De Martino si mise in movimento macinando velocemente la strada sotto le ruote, la diffidenza del pastore si trasformò in sgomento e poi addirittura in angoscia esistenziale. Man mano che l’auto procedeva, infatti, il pastore si allontanava da quello che considerava un punto di riferimento inamovibile del suo piccolo mondo antico: il campanile di Marcellinara, la cupola che faceva da segnalibro svettando sui comignoli del suo paese. Senza quel campanile, il pastore rischiava troppo, rischiava tutto il suo indice di senso, scopriva una bruciante crisi di presenza e percepiva un insopportabile spaesamento. Di questa vicenda, così come di altri esempi, De Martino racconta ampiamente nei suoi diari per documentare quella “possibilità di esserci in una storia umana” insieme ai dati esistenziali che ne scatenano la crisi: morte, malattia, paura e tutto quello che “viene mentalmente estratto dal contesto storico entro il quale è stato esperito e viene ricondotto a un tempo e a una vicenda mitici”.

Il mito e il rito stanno a Ernesto De Martino come un’anatomia altra, invisibile e necessaria quanto il suo stesso respiro. Un respiro venuto al mondo il 1° dicembre del 1908, all’indomani del terremoto di Messina e Reggio Calabria, quando il travaglio di sua madre iniziò mentre guardava da una finestra affacciata sulle strade di Napoli i camion per la raccolta dei beni di prima necessità per gli sfollati. Con una sequenza apocalittica si apre la vita demartiniana che si chiude il 6 maggio 1965 nella stanza di un ospedale a Roma dove, tenendo stretta la mano della sua compagna di vita e di ricerca Vittoria De Palma, chiese una rivista: «Ma la rivista Aut Aut è arrivata? Me la vai a prendere? Ma come mai non c’è luce?» sono le parole-sipario dell’uomo De Martino che nel suo modo di stare al mondo cercava di esorcizzare il dolore, la malattia che è stata una condizione fondante – come le crisi epilettiche della sua giovinezza, latenti nella mezza età – al pari della paura di “cadere nel nulla”. E per non cadere, lo storico napoletano studiava le manifestazioni del dolore, della malattia e della morte attraverso la magia legata alla resistenza di quegli umani che per lui costituivano una “sapienza del pianto”.

I sapienti del pianto, secondo De Martino erano i contadini del Sud Italia che nel secondo dopoguerra morivano accompagnati dal lamento funebre collettivo. Ed è questo dolore singolare trasfigurato al plurale a caratterizzare il viaggio demartiniano alla scoperta de “La terra del rimorso” che trovò nel Salento del giugno 1959 il suo compimento. Il tarantismo, quell’antico rito contadino caratterizzato dal simbolismo della taranta, il ragno che morde e avvelena, ne “La terra del rimorso” (pubblicato nel 1961) è la rabbia d’amore che muove i pugni di Rosaria di Nardò contro la porta che cela la statua di San Paolo, protettore delle tarantate e dei tarantati, a Galatina durante la festa dei SS. Pietro e Paolo. L’urlo di dolore dei cuori malati di noia nella solitudine e nell’attesa “dell’epoca del sogno” che attraverso quella “follia” canalizzata terapeuticamente con i musicanti che la sollecitano, la “scazzicano”, favoriva il corpo a corpo della tarantata con il santo al quale chiedeva la grazia danzando secondo un codice estatico riconosciuto da tutti gli astanti.

Alcuni degli aspetti nevralgici del discorso demartiniano sono espressi dalla struttura de La terra del rimorso che non a caso si divide in tre parti; la prima parte è il resoconto etnografico del viaggio che De Martino intraprese nell’estate del ‘59 nel Salento, terra d’elezione del tarantismo, dove vide all’opera il rito ritratto nel vivo dell’azione, la seconda parte porta i titolo del libro e costituisce una indagine diacronica del fenomeno così come si presenta nella letteratura dedicata all’argomento e che lo storico delle religioni aveva studiato – una letteratura che copriva un arco temporale vasto, che all’epoca iniziava nel Medioevo e si protraeva sino al presente della ricerca demartiniana – ponendo l’accento sui documenti condivisi con la sua equipe, la terza parte – il commentario storico – è un’integrazione storica che conduce alle conclusioni. La questione salentina, per De Martino, aveva una radice protomediterranea, c’era dunque una radice comune nel codice del tarantismo. Un codice che De Martino documentò in una inchiesta etnografica straordinaria. Mentre i suoi contemporanei si interrogavano circa eventuali forme di vita nello Spazio, De Martino interrogava così lo spazio mitico dentro i viventi.

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