«Allontanatomi ancora un poco dalla stazione arrivai ad una strada, che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera».
E in quel precipizio Carlo Levi scende percorrendo una mulattiera, di girone in girone, in quel posto che gli appare come l’inferno dantesco.
La descrizione è lucida, precisa e coinvolgente. Il romanzo è l’opera magna dell’autore: Cristo si è fermato ad Eboli. Levi racconta il paesaggio e l’architettura dei sassi con la chiarezza e l’asciuttezza del linguaggio che lo contraddistinguono: «La stradetta, strettissima, che scendeva serpeggiando, passava sui tetti delle case, se quelle così si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone: ognuna di esse ha sul davanti una facciata».
Il romanzo ci conduce in un mondo di “dolente bellezza” dove la gente vive con gli animali in affollatissime case che altro non sono se non grotte scavate nel tufo.
Eppure, fino alla fine del Settecento i Sassi sono un innovativo esempio di sostenibilità per i loro sistemi di raccolta delle acque piovane e di scolo e per i l’utilizzo di materiali a kilometro zero (per utilizzare il gergo moderno). La situazione precipita quando, l’aumento demografico del XVII e del XX sec. portano all’ampliamento del perimetro della città verso il piano e alla necessità per alcuni di continuare a scavare nel banco tufaceo per ricavare nuovi ambienti abitativi. Nel ventennio fascista i Grabiglioni (piccoli corsi d’acqua che scendevano a valle, utilizzati per lo scarico delle acque reflue) vengono pavimentati compromettendo, così, il raffinato sistema idrico materano.
«Dentro quei buchi neri dalle pareti di terra vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi. Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini, bestie». Racconta ancora Levi nella sua opera, che ha il merito di aver portato il caso dei Sassi all’attenzione nazionale.
Nel 1948 Palmiro Togliatti, allora segretario del PCI, visita Matera e la definisce “vergogna nazionale”. Quello che era stato un sistema architettonico di organica bellezza in cui paesaggio naturale e antropico si fondevano in un unico sviluppo è ormai scenario di estremo degrado sociale e ambientale.
Dopo la Seconda guerra mondiale i Sassi divengono l’emblema dell’arretratezza e della povertà del Meridione. Matera, un caso da risolvere. E così, nel 1952, il Governo di Alcide De Gasperi approva la prima legge di risanamento dei Sassi con conseguente sfollamento di circa 17mila persone trasferite, dai rioni antichi alle case popolari in periferia.
Come sempre accade quando le esigenze di vita della gente cambiano, l’architettura deve rispondere. Si procede, così, alla costruzione di cinque quartieri periferici, tra cui il Borgo La Martella, Borgo Venusio e il quartiere Spine Bianche.
Architetti come Ludovico Quaroni, Carlo Aymonino, Federico Gorio, Luigi Piccinato e altri maestri di quel calibro sono chiamati a riflettere su come delocalizzare una popolazione da un luogo a un altro senza creare la perdita di identità legata allo spazio fisico in cui vive.
La Martella è l’esempio più lampante di questa riflessione. Fondamentale la figura di Adriano Olivetti che, da imprenditore illuminato e presidente dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) e dell’UNRRA-CASAS (United Relief and Rehabilitation Administation- Comitato Amministrativo Soccorso Ai Senza Tetto), promuove la realizzazione del borgo.
Il progetto, curato da Ludovico Quaroni, Luigi Agati, Federico Gorio, Piero Maria Lugli e Michele Valori cerca di dare una risposta concreta alle idee di Olivetti. La progettazione parte dall’analisi urbanistico-architettonica e sociale della realtà dei Sassi. Il borgo si adagia alle curve di livello del territorio che degrada verso il Basento, mentre le corti interne e i materiali (tufo e mattoni di argilla cotta) rievocano i colori e l’atmosfera di vicinato dei rioni antichi.
La Martella è una sperimentazione sociale, ancor prima che urbanistica. I contadini sono direttamente coinvolti nelle scelte come la tipologia delle case che si snodano parallele lungo i percorsi proprio come nel centro antico. Il borgo doveva essere propulsore di una nuova comunità autosufficiente con servizi e infrastrutture autonome. I riferimenti teorici? Le tesi di Lewis Mumford e Yona Friedman. La pianificazione proposta è dal basso e comprende anche la “formazione” dei contadini al rispetto della natura anche con nuovi metodi colturali. Il borgo, dopo la sua costruzione, viene abbandonato a se stesso e non immediatamente dotato dei servizi necessari; inoltre, la gente, sradicata dal suo ambiente originario, si chiude in se stessa provocando il fallimento dell’utopia olivettiana. E i Sassi? Sono stati nel tempo riqualificati, risanati fino a diventare nel 1993 patrimonio UNESCO, ma ormai non sono più gli stessi. La crescente richiesta turistica ha fagocitato anche loro e quella comunità di quartiere, malsana e insalubre - ma autentica - è ormai rimasta solo tra le pagine del romanzo di Levi.
















