C’è una linea segreta che unisce la poesia alla terra, il ricordo alla luce. È la stessa linea che Carlo Levi tracciò con Cristo si è fermato a Eboli, quando la Basilicata divenne per la prima volta specchio dell’anima di un intero Paese: una terra remota, ma capace di raccontare la verità universale dell’uomo. Su quella linea si muove da sempre Roberto Linzalone, classe 1953, poeta lucano, amico di Levi e testimone di una stagione irripetibile della cultura italiana. Allievo del silenzio e della parola, Linzalone ha attraversato la Lucania delle pietre e dei volti contadini, fino a ritrovarsi accanto a Francesco Rosi e Gian Maria Volonté sul set di Cristo si è fermato a Eboli, come aiuto regista e custode di un mondo che stava scomparendo. Oggi, la sua voce restituisce il respiro profondo di quella terra che Levi chiamava “ferma”, ma che nella sua poesia continua a muoversi, lenta e luminosa, come una preghiera laica rivolta al Sud e alla memoria.
Lei è cresciuto nella stessa terra che Carlo Levi ha trasformato in simbolo universale dell’esilio e della dignità contadina. In che modo la Lucania continua a parlare dentro la sua poesia?
«Il sentimento è quello di un’umanità confinata nella propria stessa dimora. La Basilicata parla con il suo dizionario di paesaggi, case, chiese, grotte e uomini in via d’estinzione. Resistono i valori della dignità e dell’ospitalità, anche se la minaccia è la perdita dell’identità».
Ci racconta la prima volta che ha incontrato Carlo Levi?
«Accadde a Matera nel 1974. Ebbi la conferma di trovarmi davanti a un uomo precipitato in un mondo che non avrebbe mai immaginato di scoprire nella sua stessa nazione. Da Giustizia e Libertà era passato a Ingiustizia e Povertà. Levi, uomo di formazione europea, aveva rivelato al Paese l’esistenza di un’umanità segregata, nascosta nel proprio silenzio. Il suo fascino resiste nel tempo: in Lucania scoprì la verità che non aveva trovato altrove».
Com’è stato lavorare sul set di Cristo si è fermato a Eboli accanto a Rosi e Volonté?
«Fu un’esperienza inattesa. Rosi mi scelse come assistente alla regia nel 1977, e da quel giorno fino ai suoi funerali restammo legati da stima e affetto. Ricordo il primo marzo 1978 a Craco: una nebbia improvvisa cancellò la scena prevista. Rosi fermò un contadino che tornava a casa dopo qualche bicchiere e gli insegnò sul momento la parte del banditore. Quell’uomo, autentico e smarrito, rimase nel film. Volonté attraversava una fase tesa, ma Rosi riusciva a tenere la squadra con affetto e disciplina. Era un regista che sapeva ascoltare luoghi e persone».
Lei ha abitato due linguaggi: la parola poetica e l’immagine cinematografica. Dove ha trovato la verità più profonda?
«Nella poesia. Ma con Rosi ho compreso che la poesia può farsi cinema civile. Cristo si è fermato a Eboli è un film di poesia: la musica di Piero Piccioni, il paesaggio lucano e l’umanità che li abita sono versi in movimento. Rosi diceva sempre: “Ci saranno i ragazzi?”. Senza il rapporto educativo coi giovani, temeva che l’arte diventasse evasione».
Carlo Levi scriveva che in Basilicata “il tempo è fermo”. Lei, invece, cosa vede oggi?
«Resta ferma la voglia di non voler cambiare. È cambiato il rapporto con sé stessi, ma la minaccia più grande è la perdita dell’identità, la smemoratezza dei valori».
Nel film di Rosi prevale una poesia del silenzio. Quanto di questa concezione nacque anche dal vostro dialogo?
«Rosi amava e rispettava la Lucania. Non ha sporcato né forzato nulla. La sera, nei ristoranti di Matera, si discuteva di politica e poesia: Parrella e Tonino Guerra volavano sulle parole, mentre Rosi, sempre attento, osservava tutto. La domenica passeggiava nel centro storico: da un portale, da una pietra, sapeva risalire a una storia universale».
Oggi la povertà ha altre forme. Come la racconterebbe un nuovo “Cristo”?
«Oggi la miseria è nell’anima. Bisognerebbe ritrovare i valori profondi: solidarietà, rispetto, verità».
Lei ha conosciuto i grandi del Novecento. Cosa vorrebbe trasmettere ai giovani poeti?
«Identità, amore, appartenenza. La fede nella verità: è la lezione più grande che ho ricevuto da Rosi».
Il Sud è per lei una ferita o una salvezza?
«È entrambe le cose. Una ferita che salva, perché costringe a ricordare chi siamo».
Un ricordo inedito che sente di consegnare alla memoria collettiva?
«La comunicazione dei sentimenti. È questo che mi resta: la voce di Levi, lo sguardo di Rosi, la verità di una terra che ancora oggi parla per immagini e silenzi».
















