Con la cultura non si mangia? A dire il vero, si mangia, si beve, ci si abbuffa e si può diventare ricchi, molto ricchi. Questo è quello che pensano coloro che, da tempo immemorabile, si dedicano a trafugare e vendere opere d’arte. Parlando del lavoro più antico del mondo, chiunque penserebbe maliziosamente a qualcosa di piuttosto preciso. Tuttavia, tra i lavori più antichi del mondo, dovremmo forse annoverare proprio i furti d’arte, pratica, questa, che attraversa il tempo e lo spazio da millenni.
Nel suo avvincente libro Quando l’arte va a ruba. Furti e saccheggi, nel mondo e nei secoli (2021), Fabio Isman ricostruisce alcuni dei casi più sorprendenti, avventurosi e misteriosi che costellano l’affascinante storia dei furti d’arte. Da quello della Gioconda, rocambolescamente architettato da Vincenzo Peruggia, a quelli di opere di artisti come Vermeer, Munch, Klimt o Caravaggio, dalle imprese, in questo campo, molto poco eroiche di Napoleone alle razzie operate dal nazismo (a cui Isman ha dedicato il suo ultimo libro, in uscita tra pochi giorni), questa particolare storia appassiona, incuriosisce e, talvolta, fa anche irritare. Ciò accade soprattutto se si presta attenzione ai dati riportati da Isman: gli oggetti d’arte sottratti illegalmente sono più di cinque ogni ora, alias uno ogni dieci minuti; il valore di ciò che i “carabinieri dell’arte” (che, oltre al fatto di essere tra i più specializzati al mondo, non smetteremo mai ringraziare per il lavoro che fanno) recuperano ogni anno supera i cento milioni di euro. Si tratta di una storia che, di giorno in giorno, si arricchisce – in senso stretto – di nuove opere trafugate, tanto che l’archivio dei carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale comprende oltre un milione e duecentomila opere da ricercare.
Ad esempio, non sono ancora stati trovati i tredici dipinti rubati all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston nel 1990, tra i quali figura l’unico paesaggio marino realizzato da Rembrandt, dal titolo Cristo nella tempesta sul mar di Galilea, e il Concerto a tre di Vermeer. C’è poi, tra i tantissimi, il caso dei Due ragazzi con un boccale di birra di Hals, dal valore di circa diciassette milioni di dollari, che è stato rubato tre volte: è stato individuato e arrestato il responsabile del terzo furto, ma del dipinto non c’è traccia. Oppure c’è il caso del Ritratto di Jacob de Gheyn III di Rembrandt, trafugato per ben quattro volte, dal 1967 al 1983, dalla Dulwich Picture Gallery di Londra: ritrovato.
Non poteva poi mancare la criminalità organizzata. La mafia, anche ai suoi livelli più alti, si è sempre inserita nel mercato dei furti d’arte. Cedono al canto di queste sirene (non certo a quelle delle auto delle forze dell’ordine) figure di primissimo piano, come Francesco Messina Denaro (“don Ciccio”) e il figlio Matteo, implicati, rispettivamente, nel furto dell’Efebo di Selinunte e del Satiro danzante.
Ma, in questa selva di personaggi appartenenti ai mondi più diversi – dalla mafia alla politica, dalle gallerie d’arte ai colletti bianchi –, popolata da figure talvolta estremamente scaltre, talvolta decisamente improbabili, e in questa lunghissima e multiforme storia, c’è una vicenda che, a leggere il coinvolgente e bellissimo (anche in senso propriamente grafico-estetico) libro di Isman, resta tra le più strane e indecifrabili. Negli anni Ottanta, Franco Peppe, un grossista ortofrutticolo di Fondi, si dà al collezionismo. Canaletto, Tiziano, Toulouse-Lautrec, capolavori che, secondo la Procura, aveva acquistato su suggerimento del celebre critico e professore universitario Carmine (nel libro, per una svista, chiamato Gabriele) Benincasa, amico di politici di primo piano, come Antonio Gava o Vincenzo Scotti, e frequentatore dei salotti buoni romani. Nel 1993, due persone incappucciate irrompono nella villa di Peppe e prendono tre dipinti. Secondo le indagini, il commerciante, non potendole più tenere, aveva pensato di venderle, incontrando il parere contrario del critico, secondo il quale quei dipinti avrebbero incrementato il proprio valore in futuro. Un malavitoso, intanto, si accusa della rapina, indicando Benincasa come mandante. Nel 1994, viene arrestato, ma otto anni dopo, difeso da Franco Coppi, viene assolto e risarcito. Chi abbia ideato la rapina non lo sapremo mai. Intanto, la direzione antimafia confisca a Franco Peppe beni per dieci milioni di euro, chiude tre sue aziende e sigilla la villa con piscina. Conclude Isman: «L’inchiesta sulla “famiglia” Tripodo – che aveva importato nel basso Lazio i metodi della ’ndrangheta di Reggio Calabria – si chiude con ventitré condanne, un secolo di carcere. In appello, Franco Peppe, difeso da altri, se la cava con sei anni, e nel 2013 sarà assolto dall’evasione fiscale. Dei quadri meglio non parlare più». La storia continua…













