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La “sottile” differenza tra rapina e saccheggio

La “sottile” differenza tra rapina e saccheggio

 
Lara Laviola

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Lara Laviola

La “sottile” differenza tra rapina e saccheggio

Domenica 26 Ottobre 2025, 19:28

Con il furto spettacolare di Parigi al Louvre viene da pensare che a Londra in questo momento il massimo sono i furti di cellulari ad opera di scippatori in bici (che possono anche essere ladri ma sull’ecologia non si scherza) che ti sfrecciano accanto mentre stai per attraversare la strada. Fenomenale per quanto è noiosa, poi, la storia dei furti al British Museum che ha dato scandalo circa un anno e mezzo fa: non un Indiana Jones, non un Lupin ladro gentiluomo, non un pirata con la benda nera sugli occhio, no, un dipendente, col badge, la borsa a tracolla e la pausa pranzo alle dodici e trenta.

Tutto inizia nel 2021, quando l’antiquario danese Ittai Gradel, navigando su eBay, nota piccole gemme e cammei che gli sembrano familiari: li aveva visti nei cataloghi del British Museum. Avvisa l’istituzione, che risponde con l’entusiasmo di chi apre una mail di spam: “Grazie, verificheremo”. Non lo fecero.

Nel 2022 un controllo interno rivela che diversi oggetti non sono più al loro posto. Il museo scopre così di non sapere esattamente quanti oggetti possiede: nei depositi ci sono migliaia di reperti non catalogati, roba che un ladro se ci entra mette ordine.

Il 16 agosto 2023 arriva la bomba: il British Museum annuncia che “alcuni oggetti” sono stati rubati, mancanti o danneggiati. “Alcuni”, si scoprirà, significa circa duemila. Viene licenziato un dipendente, Peter Higgs, curatore stimato ma sospettato di aver trafugato lentamente gemme e cammei, vendendoli online a prezzi da mercatino.

L’opinione pubblica esplode, il direttore Hartwig Fischer si dimette e viene istituita una commissione indipendente. A dicembre 2023 il verdetto è: 1.500 oggetti rubati, 500 danneggiati e un sistema di catalogazione con evidenti problemi. Imbarazzante ma fa così ufficio pubblico.

Molto più interessanti, controverse e profonde sono le accuse che il British Museum ha dovuto subire nel tempo, riguardanti il fatto che una parte significativa delle sue collezioni proviene da epoche in cui l’Impero britannico esercitava un potere politico e militare su gran parte del mondo.

Fin dalla sua fondazione nel 1753, il British Museum ha raccolto opere grazie a donazioni, scavi, scambi e, in molti casi, attraverso pratiche tipiche dell’epoca coloniale. Se nel XVIII e XIX secolo la “collezione universale” era vista come simbolo di progresso e sapere, oggi molti di quei reperti vengono riletti alla luce di una storia segnata da disuguaglianze, conquiste e appropriazioni forzate.

Le richieste di restituzione - i marmi del Partenone, i bronzi del Benin, le reliquie etiope - non sono solo questioni legali o diplomatiche. Sono domande morali: chi ha il diritto di custodire la memoria degli altri?

Il museo stesso riconosce che parte dei suoi oggetti “sono soggetti a richieste di restituzione da parte di Stati e comunità di origine”. La sezione “Contested objects” fornisce al pubblico informazioni sullo stato di queste discussioni e sui principi che guidano le decisioni del museo.

Tra i diversi oggetti indicati come “contested”, alcuni sono diventati veri e propri simboli del dibattito globale sulla restituzione dei beni culturali.

Il caso più famoso, i marmi del Partenone, da Atene, rimossi all’inizio dell’Ottocento da Lord Elgin e oggi esposte al British Museum, rappresentano da decenni una delle più accese controversie culturali del mondo. La Grecia ne chiede la restituzione, sostenendo che siano parte integrante del Partenone e del suo patrimonio storico. Il museo, invece, difende la propria posizione, promuovendo l’idea di un accesso universale al patrimonio umano e di una collaborazione culturale con Atene.

Un altro caso cruciale riguarda i bronzi del Benin, straordinarie opere in bronzo e ottone provenienti dall’attuale Nigeria, trafugate durante una spedizione militare britannica nel 1897. Oggi, molte istituzioni europee - tra cui il British stesso - riconoscono il contesto violento della loro acquisizione e collaborano con musei e autorità nigeriane per discutere nuove forme di restituzione, prestito e co-curatela.

Gli oggetti d’oro del regno Asante (oggi Ghana), simboli del potere reale e spirituale, furono portati in Gran Bretagna dopo le guerre coloniali del XIX secolo. Anche in questo caso, il British Museum dichiara apertamente la provenienza e riconosce il valore culturale che questi oggetti rivestono per le comunità ghanesi.

La riflessione sugli oggetti contesi solleva domande cruciali: a chi appartiene il patrimonio culturale dell’umanità? È giusto che i musei occidentali conservino reperti sottratti in epoca coloniale? O è più utile mantenerli come simboli universali?

Il British Museum, nella sua comunicazione ufficiale, afferma di voler perseguire la trasparenza, la collaborazione internazionale e un maggiore coinvolgimento delle comunità di origine. Tuttavia il museo continua a sostenere la propria funzione di custode globale, proponendo la creazione di partenariati e accordi di prestito piuttosto che restituzioni definitive. Come tutto l’Occidente: in equilibrio perenne tra il mantenere il proprio status di istituzione universale e al tempo stesso affrontare con onestà le ombre del proprio passato.

 

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