Ancora oggi il mondo dell’architettura è fortemente maschilista. “Che il cantiere mal si concili conlatte e pannolini è ancora un luogo comune molto radicato” scrive Elena Granata nel suo libro “Il senso delle donne per la città”. Nel panorama culturale, ancora in poche riescono a far emergere la loro voce; nella storia molte sono cadute nell’oblio oppure nell’ombra di più rassicuranti nomi maschili. Non si capisce perché non si riesca a superare questo divario anacronistico. Quali sono i limiti culturali?
Sicuramente i problemi vissuti oggi da chi esercita la professione di architetto - la svalutazione sociale ed economica, l’eccessiva responsabilizzazione e la deregolamentazione degli orari - non aiutano quanti devono conciliare esigenze lavorative e familiari. Neanche la grammatica viene in soccorso: architetto è sostantivo maschile.
Per lungo tempo si è pensato che la declinazione al femminile delle professioni fosse la prima risposta necessaria, così il sostantivo “architetta” è apparso sulla scena linguistica in tutta la sua sarcastica “cacofonia”. La questione lessicale non c’entra. Non basta, infatti, un neologismo a sradicare luoghi comuni e arretratezza culturale.
Nel 2018, è stato consegnato all’architetto Massimiliano Fuksas il premio alla carriera da IN/Arch Lazio. Esclusa dal riconoscimento la moglie, Doriana Fuksas (meglio: Doriana O. Mandrelli) che con lui dirige uno degli studi di architettura più famosi a livello nazionale e internazionale. L’ira funesta delle architette è così esplosa. È stata lanciata una petizione per includere anche lei nel premio (ad onor del vero, tra i firmatari c’erano anche i due coniugi Fuksas). Alla petizione,
promossa dai collettivi Rebel Architette e Vow Architects, ha replicato la giuria del premio: abbiamo assegnato il riconoscimento alla persona, non allo studio. Andando indietro nel tempo, quanto si conosce dell’architettrice (parola che a nostro parere suona meglio di architetta) Minnette De Silva? Pioniera dell’architettura dello Sri Lanka, nel 1996 ha vinto la medaglia d’oro
conferita dallo Sri Lanka Institute of Architects. Eppure, la storia attribuisce a Geoffrey Bawa (uomo) la qualifica di pioniere srilankese; anche se De Silva operava da molto tempo prima. E ancora, se si pensa al Pritzker Prize (il “Nobel” dell’architettura) istituito nel 1979, bisogna aspettare il 1996 per vedere la prima donna - Zaha Hadid – insignita del premio. Sembrerebbe di
capire che l’architettura sia ancora pensata come un mondo di e per uomini. Ebbene: le donne non si arrendono.
Oggi schiere di attiviste finalmente fanno sentire la loro voce. Riunite in collettivi come il Rebel Architette (italiano) o il Col. Lectiu Punt.6 (spagnolo), propongono, attraverso scritti, progetti e realizzazioni, nuove prospettive per lo sviluppo di una progettazione più equa e inclusiva. Città a misura di donne e, più generalmente, a misura di tutti. Ciò che serve è un cambiamento radicale di prospettiva. Bruno Taut, nel suo libro La nuova abitazione. La donna come creatrice. I problemi dell’abitazione dal punto di vista femminile già individuava la donna come la persona più adatta a plasmare gli spazi. La sua era una visione puramente funzionalista, forse un po’ troppo asettica e generalizzante, ma già riconosceva il potere trasformativo delle donne come protagoniste dello spazio.
Allora qual è la risposta per l’auspicabile e tanto agognato cambiamento culturale, ancor prima che urbanistico e architettonico?
La “cura”, si legge nel vocabolario Treccani, è l’interessamento solerte e premuroso per un oggetto che impegna sia il nostro animo sia la nostra attività…”. E che cosa c’entra tutto questo con l’architettura? La donna per sua natura svolge tante attività che vanno dal lavoro alla cura della casa, dei bambini e degli anziani; e se è vero (com’è vero) che l’architettura - intesa anche come urbanistica - è luogo di vita, allora: chi meglio della donna può promuovere il valore della cura nella
progettazione? In passato la cura era associata a una pratica di subalternità femminile. Oggi è un punto di forza; intesa come pratica quotidiana, economica e politica può ribaltare le gerarchie promuovendo un nuovo sistema valoriale nella pratica progettuale. Ci si appella a questa particolare competenza femminile per ricercare ancora l’intimità dello spazio domestico, la tutela della natura e il paesaggio, la riscoperta della dimensione affettiva e relazionale della città.
Quindi: che cos’è l’architettura femminista? È un mutamento di prospettiva necessario a produrre il cambiamento. La quotidianità della donna suggerisce un approccio progettuale basato sull’orizzontalità e sul sostegno reciproco. L’architettura delle donne guarda al futuro sostenibile, democratico e inclusivo.
Le donne, oggi, hanno ancora bisogno di unirsi per trovare la forza necessaria per farsi ascoltare, ma arriverà il momento in cui questo non sarà più necessario. L’architettura delle donne sarà al pari di quella degli uomini. Due sguardi diversi, ma complementari. Come natura vuole.
















