Con le date non ci siamo, parlando di ricorrenze e anniversari adeguati a ricordare le cose importanti. Ma con la gravità dei fenomeni di lunga durata sì, ci siamo, se si fa rientrare nell’ordine del discorso la materia viva e incandescente della violenza sessuale sulle donne; specialmente con l’epifenomeno audiovisivo italiano più importante: Un processo per stupro, il programma di Maria Grazia Belmonti, Anna Carini, Rony Daopoulo, Paola De Martis, Annabella Miscuglio e Loredana Rotondo che andò in onda una prima volta sulla seconda Rete della Rai-Tv, come veniva chiamata allora, il 26 aprile 1979, quindi in replica il 18 ottobre successivo, vincendo quell’anno il Premio Italia assegnato dalla giuria internazionale al migliore documentario televisivo.
Ma Un processo per stupro, opera pionieristica e a tutt’oggi senza eguali, è addirittura, senza giri di parole e linee di demarcazione tra grande e piccolo schermo, una pietra miliare della storia del cinema tout-court, prendendo le mosse dal processo celebrato davanti al Tribunale di Latina il 26 maggio e il 26 giugno del 1978. Il film, perché così va chiamato e considerato, è stato a lungo invisibile e poi, a sorpresa, è ricomparso on-line; finché, come di disincanto è ridiventato
irreperibile, in tempi come questi in cui tutto e cioè niente è permesso, con il politicamente corretto linguistico che impera e restringe le parole, dispensa acronimi e impoverisce il linguaggio, quindi il ragionamento in generale. Sopravvive e resiste su Raiplay, nella versione parziale di dieci minuti, appena la notevole e indignata arringa dell’avvocata Tina Lagostena Bassi che difende la vittima, Fiorella, la quale paradossalmente sembra diventare nell’aula di tribunale, nel comune sentire maschilista epocale, una specie di imputata indicizzata da considerazioni e descrizioni irripetibili restituite dai responsabili della violenza e dai loro patrocinanti. Nell’augurio che torni integralmente in rete, magari in una versione degnamente restaurata, ecco che una cifra relativamente tonda, poiché multiplo di cinque, c’è per recuperare diversamente questo gioiello della televisione
nazionale: nel 1980, un anno dopo la trasmissione e due dopo il processo, la trascrizione del dibattimento “scandaloso” diventa un volume edito da Einaudi in cui il martirio raddoppiato, fisico e giudiziario, è possibile ripercorrerlo, parola per parola, anche attraverso la riproduzione dei fotogrammi. Ovviamente il libro va cercato. E non nelle pubblicazioni correnti ma dai librai che
custodiscono i testi fuori catalogo, non essendo stato ristampato da allora.
L’attualità drammatica e probatoria di Un processo per stupro consiste a maggior (s)ragione in questa sua relativa e curiosa invisibilità, tale da renderlo ancora un esempio di coscienza veritiera dentro l’incoscienza generale del pensare abietto; con buona pace degli accorgimenti di un saper dire odierno le cose per bene perpetuando dentro le radici della violenza. Il film del collettivo femminile sulla carta incrocia il valore aggiunto di Franca Ongaro Basaglia, che ha ben presente lo spessore dell’operazione audiovisiva nell’introduzione al volume dove rammenta come dell’evento inevitabilmente si «perde parte della sua forza e della sua ambiguità. Si attenua la forza delle immagini: i sorrisi ammiccanti degli avvocati, gli sguardi ironici di chi dovrebbe rappresentare la legge; mancano le voci suadenti, le risate, il tono insinuante delle volgarità pronunciate; le bocche
degli imputati che masticano chewingum; le grida stridule e rabbiose delle madri, costrette a difenderli; l’espressione spavalda e sprezzante di un testimone che non ha niente da testimoniare ma serve a creare un’atmosfera equivoca attorno alla ragazza stuprata; la forza di Fiorella quando grida: “non è vero, non è vero… e lo sai che non è vero”.
Manca lo squallore di quella complicità maschile sorniona, sotterranea, da caserma, che lega tutti gli uomini presenti in un’unica orchestra, in cui ciascuno suona la sua nota sfacciata; e il riso che serpeggia come un brivido – contagiando tutti – ogni volta che si parla di lei, della donna: un riso acido, pieno delle paure che l’uomo sa superare solo con l’ironia, il disprezzo, la volgarità, dietro le quali si sente al sicuro, riparato dallo scudo del gruppo maschile. E manca quello che, per l’economia della trasmissione e il buon gusto della regia, non è stato utilizzato perché sarebbe stato troppo pesante, quasi inventato, rischiando di togliere credibilità all’intero documento. Però sappiamo che c’è, come sappiamo ci sono i vuoti lasciati dal dibattimento a porte chiuse, di cui solo la ragazza stuprata conosce la pesantezza». Donde l’articolo indeterminativo inaugurale “Un”,
come principio modulare e osceno dello “stupro” moltiplicato e talvolta “processato”.
















