Nella storia della musica popolare del Novecento, poche figure hanno inciso con la potenza di un gesto simbolico tanto quanto Patti Smith: viso scavato, lo sguardo lucido, una camicia bianca lasciata aperta come un manifesto di libertà. Più che un’icona, Patti è stata un detonatore: la dimostrazione che il rock potesse accogliere una figura femminile fuori dalle cornici, estranea ai
cliché della sensualità obbligatoria o della dolcezza imposta. La sua forza stava nel rifiuto dei ruoli.
Era, semplicemente, Patti Smith: poeta, performer, intellettuale errante. E questa autenticità radicale è forse il gesto femminista più importante dei suoi esordi. Non per la trasgressione in sé - ormai logora quando non sostenuta da un pensiero-, ma per la capacità di rompere i codici estetici e comportamentali del rock, imponendo una nuova grammatica della presenza femminile. Smith emerge a metà degli anni Settanta come un corpo estraneo, una deviazione: non la diva, non la musa, non l’“eccezione” che conferma la regola maschile. È, piuttosto, una soglia. Un inizio. Un precedente che costringerà il sistema culturale a ripensarsi. La prima grande rivoluzione di Patti Smith è stata la dismissione dello sguardo altrui. Il rock degli Anni ‘70, pur attraversato da tensioni controculturali, rimaneva un territorio regolato da una maschilità dominante tanto nei codici sonori quanto nelle posture. Smith non si è opposta frontalmente a questi linguaggi: li ha riutilizzati, li ha scardinati dall’interno. È sufficiente osservare la copertina dell’album d’esordio “Horses” (1975): Smith non “posa”, non interpreta un ruolo, non
ammicca, abita la fotografia come uno spazio neutro, quasi ascetico, rivendicando un’identità che precede l’immagine stessa. È la prima incrinatura nel regime visivo del rock. Questa operazione non nasce da un femminismo programmatico, bensì da una poetica esistenziale che mette al centro una forma radicale di autenticità. Ma proprio questo rifiuto delle categorie tradizionali - della sensualità performativa, del decoro, del ruolo - produce un effetto politico potentissimo: Patti Smith permette a molte donne di immaginarsi diversamente, di esistere nel rock senza imitare modelli maschili o incarnare icone femminili preconfezionate.
Nella sua lunga carriera artistica, coronata da amicizie e riferimenti letterari di straordinari scrittori, poeti e musicisti, la 79enne artista di Chicago ha realizzato più una ventina di lavori discografici (tra album ufficiali, Ep, raccolte e live), oltre a collaborare con alcuni dei più grandi musicisti della storia della musica. Ma se Patti Smith rappresenta l’esempio più eclatante della storia della musica rock al femminile, non meno importati sono i contributi che, nei decenni, hanno visto in
prima linea altre rilevanti voci.
Nel primo ventennio del Secolo scorso, ad esempio, è quasi impossibile dimenticare la grandecantante blues-jazz di Bessie Smith, una figura simbolo di impegno sociale e emancipazione femminile e impegno sociale. Con le sue canzoni raccontava le difficoltà degli afroamericani, denunciando povertà, razzismo e ingiustizie, diventando un modello di resilienza per la comunità.
Nei suoi testi rappresentava donne indipendenti, autonome e sicure di sé, affrontando amore, sensualità e indipendenza economica.
Anche la Regina del soul, Aretha Franklin, ha promosso l’empowerment femminile con canzoni come “Respect”, “Think” e “(You Make Me Feel Like) A Natural Woman”, celebrando autonomia e dignità delle donne. Con la sua carriera di successo, ha sfidato stereotipi di genere e rappresentato un modello di indipendenza e autodeterminazione, diventando un’icona femminista
e un’ispirazione per generazioni successive. In questo elenco di straordinarie donne, non poteva mancare quello di Nina Simone che, nei suoi testi, affronta temi di libertà, autonomia e dignità femminile, dando voce alle esperienze delle donne afroamericane, come in “Four Women”. Anche l’immensa Billie Holiday, oltre ad aver affrontato temi sulla discriminazione razziale, ha toccato il tema dell’oppressione femminile attraverso un brano manifesto come “Strange Fruit”. Con talento
e indipendenza ha sfidato stereotipi di genere, diventando un simbolo di resilienza, autonomia e coraggio. Anche la cantautrice canadese Joni Mitchell, ha espresso il femminismo attraverso la sua autonomia artistica e professionale, ma anche con testi che affrontano temi come sessualità, maternità e identità femminile, sfidando stereotipi e ruoli tradizionali. Joan Baez, attivista centrale nei diritti civili, pace e giustizia sociale, ha sempre i diritti LGBTQ+ e le ingiustizie di genere, diventando un simbolo di forza femminile. E in questo, negli anni, un grande contributo è arrivato anche da artiste come Madonna, Sinéad O’Connor, Beyoncé, Janelle Monáe, Björk, Debbie Harry, Siouxsie Sioux, Kim Gordon (Sonic Youth) e altre ancora. Partendo dall’impegno di Patti Smith, quindi, si può leggere la storia del femminismo nella musica come un percorso di liberazione dei corpi, delle voci e dei ruoli. Smith ha aperto un varco attraverso cui generazioni di musiciste hanno potuto reclamare la propria autonomia, trasformando la scena musicale in un campo sempre più aperto alla pluralità delle esperienze femminili.
















