«A ripensarci è una storia incredibile. Quando ho cominciato mi chiedevo: ma ce la farò ad arrivare almeno a quattro-cinque film? Certo, male che andava, in tasca avevo sempre una laurea... Ma quanta paura». Invece i film sono diventati 25, con piccoli cult come Un sacco bello, Borotalco, Compagni di Scuola, solo per citarne alcuni. E quest’anno Carlo Verdone festeggia i suoi primi 40 anni di carriera. «Conto da quando ho staccato il primo biglietto», spiega, reduce dal Festival del cinema europeo di Lecce. '
'Pensare che questo mestiere proprio non lo volevo fare - racconta - Tutto è cominciato a ottobre 1977, al Teatro Alberichino, nel quartiere Prati a Roma. Al piano di sopra debuttava Roberto Benigni con Concioni Mario, sotto io con Tali e quali». Al suo fianco il fratello Luca ride. «Mia madre ha dovuto prenderlo a calci perché salisse su quel palco», dice. ''Erano tentativi pionieristici - riflette Carlo - Ma c'erano i critici veri e non mi ritenevo assolutamente adatto ad affrontare un pubblico. Ero troppo timido, emotivo. Poi però ho cominciato a sentire le prime risate... Teatro oggi? No, l’ho fatto per due anni e non lo farò mai più. Non ho la mentalità». A rileggere questi 40 anni, più dolori o soddisfazioni? «Un autore non può sfornare sempre grandi successi - dice - Non riusciva a Chaplin nè a Rossellini. E non riesce nemmeno a me. Ma ho sempre cercato di far tesoro delle esperienze. Stasera a casa di Alice, ad esempio, è stato un gradino di transizione per arrivare a Maledetto il giorno che t'ho incontrato, che considero il mio miglior film insieme a Compagni di scuola. Ma la fregatura, la patacca come si dice a Roma, non credo di averla mai data. E poi - rivendica - a volte ci ho visto lungo. Con Ivano e Jessica ho anticipato tanto il vuoto pneumatico nella vita di coppia. Gallo Cedrone, con il progetto dell’autostrada a quattro corsie, non è tanto distante da certi discorsi che ho sentito poi nel 2000». E oggi che periodo è?
«Il più complicato da quando faccio questo lavoro - ammette - E’ complicata la vita, la politica, è finita l’etica. Quanta cattiveria c'è in giro, quante brutte prime pagine leggiamo. Tutto questo si abbatte anche nello spirito dello sceneggiatore. Negli anni '80 c'era più leggerezza, speranza».
E allora Verdone, che a Lecce con i fratelli ha assegnato il Premio Mario Verdone alle opere prime, riparte dai giovani. Con un nuova storia per Filmauro sul set «a metà giugno», scritta insieme a Nicola Guaglione e Menotti (alias Roberto Marchionni ndr), gli sceneggiatori di Lo chiamavano Jeeg Robot. Accanto a sè ne ha voluto anche la protagonista, Ilenia Pastorelli. «È stato un caso - assicura - Avevano due tre storie e una toccava una tematica che accarezzavo da tempo. Tanto che ho posticipato un altro progetto cui stavo lavorando. Poi, certo, penso che Gabriele Mainetti sia un fuoriclasse. Ma in generale oggi, quando vedi dei ragazzi giovani, che hanno talento, senti il coraggio. Ti viene voglia di essere il loro pigmaglione. Mi piacerebbe dirigerli, essere io allenatore come fu Sergio Leone al tempo con me. E non escludo che accada. Tre consigli? Prima di tutto lo stupore nelle storie che raccontano; trovare nuovi attori, perché serve un ricambio generazionale; e uno stile proprio». E poi, guardare la vita, le persone. «Dovrò sempre ringraziare mio padre per la tessera del Filmstudio e mia madre che mi mandava a comprare i carciofi a Campo dè fiori per osservare le persone. Ecco, in questi 40 anni sono stato un pedinatore degli italiani». E a guardare indietro, come definirebbe la sua avventura? «L'incredibile storia di un attore che una cosa non voleva nella vita: fare l'attore».