FOGGIA - Per tre volte non avrebbe accolto l'invito a collaborare con la giustizia Giovanni Caterino, il presunto basista della strage di San Marco in Lamis, avvenuta il 9 agosto 2017, in cui vennero uccisi il boss di Manfredonia, Mario Liciano Romito, e suo cognato Matteo De Palma. Nella stessa circostanza furono uccisi anche due innocenti, i fratelli Aurelio e Luigi Luciani, perché ritenuti testimoni scomodi dell’agguato. È quanto emerso nel corso di una nuova udienza del processo che si sta celebrando in corte d’Assise a Foggia a carico di Caterino che, secondo l’accusa, era alla guida della Fiat Grande Punto che la mattina della strage pedinò l’auto con a bordo il boss Romito.
Per tre volte gli inquirenti hanno chiesto a Caterino di raccontare tutto ciò che sapeva sulla mafia che opera sul Gargano, senza ricevere risposte al riguardo: le prime due volte, quando venne convocato in caserma il 27 febbraio ed il 2 luglio del 2018 in occasione del suo tentato omicidio; poi nel carcere di Bari in occasione del suo arresto.
L’avvocato dell’imputato, Giulio Treggiari, ha anche smentito un possibile collegamento di Caterino con il clan Libergolis, attivo tra Monte San'Angelo e Manfredonia. «Non c'è alcun collegamento - afferma il legale - non c'è un processo, una indagine in cui Caterino, incensurato, possa essere associato ad un clan che sia Libergolis, Romito o Raduano» (questi ultimi due attivi rispettivamente su Manfredonia e Vieste).
«Quello che fa Caterino - conclude l’avvocato Treggiari - è ripercorrere, nel corso di alcune intercettazioni captate dagli inquirenti, la storia della delinquenza di Manfredonia, cosa che apprende leggendo i giornali».