Giovedì 16 Ottobre 2025 | 00:02

Vera pace o illusione? L’accordo su Gaza alla prova del tempo

Vera pace o illusione? L’accordo su Gaza alla prova del tempo

 
Biagio Marzo

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Biagio Marzo

Gaza, accordo Israele-Hamas sul cessate il fuoco: firmata l'intesa. Trump: 'Gli ostaggi liberati lunedì o martedì'

Tutto fila liscio come l’olio? Non proprio. Hamas non intende smilitarizzarsi - condizione sine qua non per la tregua. Il tempo, come sempre, sarà galantuomo e dirà se la tregua di Gaza condurrà a una pace duratura o se si rivelerà un’illusione destinata a dissolversi

Mercoledì 15 Ottobre 2025, 14:00

Coloro che non avrebbero mai creduto a una tregua a Gaza dovrebbero ricredersi. E Tacito, con la sua celebre frase tratta dall’Agricola, mette in bocca a Calgaco capo dei Britanni ribelli - «Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant» («Dove fanno il deserto, lo chiamano pace») - torna tristemente attuale in questo scenario in cui è intervenuto Donald Trump, per mettere la pace.

Un detto che si adatta tanto ad Hamas, per la barbara aggressione contro inermi cittadini israeliani, quanto a Israele, la cui guerra senza tregua contro l’organizzazione terroristica ha provocato migliaia di vittime civili e bambini. Chi l’avrebbe mai detto che colui che, nell’immaginario mondiale, passava per il destabilizzatore per antonomasia, Donald Trump, si sarebbe trasformato nel tentativo di mediatore e stabilizzatore nella regione più guerreggiata del pianeta. Lui è il principale vincitore insieme a Netanyahu e ai Paesi sunniti, i vinti sono l’Iran sciita, Hamas ed Hezbollah. In gioco non c’è solo la pace, ma anche il calcolo politico in vista delle prossime elezioni di midterm: Trump sa di dover conservare l’elettorato ebraico americano - circa sei milioni di cittadini - storicamente più vicino ai democratici. Gli errori madornali di Netanyahu, come il fallito attacco ai vertici di Hamas riuniti a Doha, hanno indebolito la sua leadership. Trump, per non perdere i ricchi alleati del Golfo e per evitare che gli Stati Uniti restassero isolati, ha ripreso in mano le redini del comando, puntando a una tregua mediata con fermezza. Determinante è stato l’attacco concentrico dell’asse Usa-Israele, che ha fatto comprendere a Teheran e ai capi di Hamas che la misura era colma.

Trump è dovuto intervenire anche per correggere la politica machiavellica, ma miope, di Netanyahu: un rapporto ambiguo con Hamas contro Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, e una tolleranza eccessiva verso l’espansionismo dei coloni a danno dei contadini palestinesi e dei beduini residenti. Nel frattempo, il rilascio degli ostaggi israeliani detenuti a Gaza ha segnato l’avvio della tregua. Israele, in cambio, ha liberato dei detenuti palestinesi, secondo i termini della prima fase del cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti. Tra gli esclusi figura Marwan Barghouti, il Mandela palestinese, la cui popolarità avrebbe potuto rappresentare una garanzia di stabilità per una futura pace tra israeliani e palestinesi. Ma si capisce che Netanyahu non vuole un nuovo Arafat che unifica i palestinesi.

Tutto fila liscio come l’olio? Non proprio. Hamas non intende smilitarizzarsi - condizione sine qua non per la tregua. Il tempo, come sempre, sarà galantuomo e dirà se la tregua di Gaza condurrà a una pace duratura o se si rivelerà un’illusione destinata a dissolversi, nel giro di pochi mesi. Una cosa è certa: nella partita di Gaza non ci sono solo Trump, Netanyahu e Hamas, ma anche gli arabi del Golfo e alcune potenze musulmane, la cui presenza rappresenta una garanzia contro eventuali cambi di rotta.

L’obiettivo di Netanyahu resta quello di fare entrare nel Patto di Abramo i Paesi arabi del Golfo e del Nord Africa. Persino l’Iran, pur con molta riluttanza, ha finito per dare il suo placet alla tregua: il colpo di scena è l’invito di Trump a Teheran, per il vertice su Gaza che si terrà a Sharm el-Sheikh, con la partecipazione di vari Paesi, tra cui l’Italia. Sennonché non sono presenti Israele e Hamas, ma Abu Mazen è presente. Da Mosca e Pechino sono giunti apprezzamenti per il lavoro diplomatico che il presidente Usa ha condotto alla sospirata tregua. Netanyahu, tramite Putin, ha fatto sapere agli ayatollah che non cerca lo scontro diretto, segno di un cambiamento della geopolitica in Medio Oriente.

In attesa dell’evolversi degli eventi, le forze politiche italiane si sono lanciate nelle manifestazioni pro-Palestina, amplificate dai mass media, vantando la tesi di una partecipazione «morale» alla causa. Tuttavia, molti hanno abbandonato l’abito umanitario per indossare quello politico, mostrando come la Flottiglia avesse uno scopo più ideologico che solidale: non tanto portare aiuti a Gaza, quanto affermare un fronte politico anti-israeliano. Manifestazioni importanti e legittime, ma spesso a senso unico: tutte pro-Palestina, dimenticando il pogrom di Hamas contro gli israeliani del 7 ottobre, una data che molti hanno rimosso o solo formalmente condannato. Gli striscioni inneggianti alla «resistenza» palestinese - di fatto ad Hamas - erano inguardabili per la loro ipocrisia. C’è stato, ed è giusto, sdegno e solidarietà per il popolo palestinese.

Ma quello stesso spirito umanitario è mancato di fronte all’aggressione russa all’Ucraina. Bene, dunque, la vasta mobilitazione per Gaza; male l’assenza di analoghe iniziative per Kiev. L’Europa, che da tre anni e otto mesi convive con una guerra nel proprio “cortile”, non può continuare a mostrare un doppio standard. La Russia di Putin, sempre più guerrafondaia, continua a colpire l’Ucraina, mentre l’Unione europea - pur sostenendo Zelensky senza riserve - appare paralizzata, nascosta dietro la varietà dei suoi governi e la lentezza dei processi decisionali. Così come è successo nel conflitto Israele e Hamas. Tuttavia, Zelensky ha chiesto insistentemente a Trump di trovare una via politica per porre fine al conflitto, ma anche di fornirgli missili a lunga gittata per difendersi meglio. L’Europa non può più comportarsi da «bella addormentata nel bosco», pena il ritrovarsi come il vaso di coccio tra due vasi di ferro: Trump e Putin. L’unica via per uscire dalla crisi è superare il vincolo dell’unanimità, causa di paralisi e disastri politici. Restare immobili, incapaci di decisioni comuni in politica estera e di difesa, è un lusso che l’Europa non può più permettersi, soprattutto ora che Washington non intende più essere il suo ombrello strategico. Serve un autentico rilancio dell’Unione, presidio delle libere democrazie e argine contro le derive illiberali. Viviamo un cambio d’epoca: il vecchio mondo è morto e il nuovo tarda a nascere, tra guerre che si moltiplicano e venti di destra che soffiano da un continente all’altro. Il tecno-capitalismo avanza come un cantiere sempre aperto, ma privo di un vero modus vivendi. In questo scenario, l’Europa non può restare assente. Deve rimettere in moto il suo pensiero profondo, radicato nelle libertà, e trasformarlo in azione politica. È tempo di misurarsi con le sfide di chi vuole declassarla a potenza di serie B.

La tregua di Gaza non è solo un accordo tra nemici: è un fragile esperimento di umanità nel cuore del disumano. Può fallire, certo, ma indica una direzione - quella della responsabilità, del limite, del riconoscimento reciproco. Se l’Europa saprà ritrovare la propria voce - e l’Italia la propria coscienza politica - allora anche il Mediterraneo potrà tornare a essere un mare di incontro, non di separazione. Perché la pace non nasce dalle tregue, ma dal coraggio di difendere la verità.

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