Martedì 14 Ottobre 2025 | 17:48

Purtroppo questa è solo un’occasione di tregua e non un accordo di pace

Purtroppo questa è solo un’occasione di tregua e non un accordo di pace

 
Gianfranco Longo

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Gianfranco Longo

Purtroppo questa è solo un’occasione di tregua e non un accordo di pace

Ci si chiede allora a questo punto: alla popolazione palestinese quale cammino sarà riservato? I bambini potranno ricominciare la scuola, per esempio?

Martedì 14 Ottobre 2025, 13:00

Pace fatta in Medio Oriente? Se non ci fosse un punto interrogativo sembrerebbe un’affermazione incauta, espressa da chi le vicende di quei luoghi le conosce poco, e dunque si illude di una rappresentazione degli eventi che identifica la pace come un compromissorio scambio di ergastolani, responsabili di gravi reati, per degli ostaggi ancora in vita e i cadaveri di quelli che invece non ce l’hanno fatta dopo due anni di prigionia. Il compromissorio scambio tra Israele e Hamas, fazione terroristica, repleta di sanguinari e spietati psicopatici assassini, mostra in tutta sua evidenza come ci sia già uno squilibrio fra le parti, poiché la prima (Israele) agisce quale Stato riconosciuto dalla comunità internazionale; mentre l’altra parte (Hamas) s’impone per una violenza sovente rivolta nei confronti degli stessi Palestinesi, che si vedono colpiti doppiamente e vigliaccamente da due fronti in lotta. Pertanto affermare che questo possa essere un accordo di pace, stabile e duraturo, risulta difficile, se non impossibile, anche ipotizzarlo.

Sarà occasione di tregua per un recupero delle forze fra gli eserciti coinvolti. Ci si chiede allora a questo punto: alla popolazione palestinese quale cammino sarà riservato? I bambini potranno ricominciare la scuola, per esempio? E dove? Sotto le macerie o in una delle gallerie costruite da Hamas sotto il territorio di Gaza? Nel frattempo che queste urgenti questioni ricevano una risposta, chi si mobiliterà a rimuovere le migliaia di tonnellate di macerie cui ormai è stata ridotto l’intero territorio della Striscia di Gaza? Tutte queste domande non si risolvono in un solito solco di polemiche, mancati appuntamenti con la storia, visione miope della politica e così via.

Il problema di fondo è che fare spazio alla pace non significa alimentare una difesa fra due contendenti, preparandoli a nuove contese finché uno definitivamente si imponga sull’altro, conquistandolo o reprimendolo. Piuttosto un accordo di pace che sfugga a compromissorie intese politiche che cedono, prima o poi, dinanzi all’ultima provocazione, magari opportunamente preparata e pianificata, estende lo sguardo all’intero equilibrio mediorientale su cui si basa anche quello fra Israele e futuro Stato palestinese, in cui non ci dovrà essere Hamas: il terrorismo, infatti, non è una causa, è criminalità politica.

In tale contesto ci sfugge che la Siria, dimenticata dai mezzi di informazione, continui a vivere una difficile situazione di passaggio che risente di un regolamento di conti fra il governo di al-Jolani ed altre parti. Solo qualche giorno fa, truppe cosiddette «lealiste» e truppe governative hanno attaccato alcuni quartieri di Aleppo a forte presenza curda (oltre trecentomila) con la conseguente risposta armata da parte curda e l’inevitabile accendersi di un nuovo fronte di guerra interna: siamo sicuri che tale situazione non indebolirà il prosieguo dell’accordo fra Israele e Hamas? Quando si parla di Medio Oriente, d’altronde, bisogna ben tener presente che le forze in campo non si restringono a zone determinate, circoscritte, ma sono sempre suscettibili di coinvolgere parti anche lontane, parti che da un conflitto regionalizzato trovano occasione per rinfocolare vecchi dissidi e così far riesplodere la polveriera.

Le cause a monte di tutto questo, oltre ad errori della politica occidentale, superba e imperialista nel gestire terre lontane, ancora viste con diffidenza e con toni di conquista coloniale, sono quelle che si radicano fra Sunniti e Sciiti e successivi governi caratterizzanti. Dal Libano, Paese confinante a sud con Israele e ad est con la Siria, sino alla Giordania, quest’ultima confinante con tutto Israele, siamo di fronte a un coacervo geografico, su cui pesa più ad est l’Iran sciita, in cui l’ennesimo accordo di pace andrà amministrato, tenendo conto innanzitutto delle migliaia di palestinesi alloggiati in riva al mare, costretti ad uscire da Gaza completamente distrutta. Un approccio realistico alla vicenda, dopo il legittimo entusiasmo iniziale, è d’obbligo poiché la ricostruzione di Gaza prenderà alcuni anni, e coloro che adesso sono bambini, e saranno riusciti a sopravvivere, sperando che non crescano in una condizione disumana, in riva al mare, o in nuovi campi profughi senza scuola, senza basilari soccorsi ospedalieri, senza famiglia, abbandonati a esistere senza vivere, torneranno a chiedersi cosa mai sia successo ai loro genitori, alle loro case, al loro passato. Vedranno alcuni di loro zoppi, storpi, ciechi a causa delle ferite di esplosioni, senza più essere capaci di leggere, studiare, lavorare, e così vivranno accumulando risentimento nei confronti dei responsabili di questo disastro umanitario.

Inoltre questi bambini, prossimi adolescenti, esisteranno correndo sempre il rischio di essere nuovi inermi davanti alla guerra, inermi davanti a calcinacci sgretolati e a inferriate fuse dalle combustioni di propellenti ed esplosivi; esisteranno senza scuole dove imparare a leggere e dove imparare a studiare gli eventi senza la ferocia dell’indottrinamento storico-ideologico che vede i colpevoli solo da una parte, grazie ad una politica sclerotica e che rimbomba stonata.

Lasciarli ad un loro destino che la storia provvederà a costruire, il che vuol dire abbandonarli ai giochi perversi degli scambi e dei compromessi, significherà far amministrare la pace a un potere storico occidentale, vergato dalla monetarizzazione delle sorti individuali, dal silenzio sulla verità, lanciandosi ogni politico nel circuito del bieco esibizionismo citatorio come sta avvenendo di recente con il poeta palestinese Muhamud Darwish, ricordato un po’ ovunque, senza che nessuno ne ricordi però l’esilio e la sua morte in esilio, costretto anche lui ad esistere senza vivere, ad esistere senza vedere la libertà di uno Stato palestinese. Ad esistere attendendo di morire.

Se un accordo di pace vuole farsi convincente, non deve giungere come serie di ultimata, ma essere realistico, capace di considerare il dolore di un popolo come una superficie non da attraversare e calpestare, ma da seminare di nuova speranza e riconciliazione, di integrazione e sinodalità, come avvenuto alla fine della Seconda Guerra Mondiale fra il popolo tedesco e i restanti popoli europei. La pace si costruisce sì, ma innalzandola nelle scuole; erigendola mediante la cultura, il lavoro; lasciando che le famiglie vivano, e non più esistano, loro malgrado, in attesa di morire.

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