La libera iniziativa degli individui; il mercato di concorrenza; la produzione di beni a più basso costo e di largo consumo ed accessibili a tutti; la capacità di poter scegliere senza vincoli e interferenze da parte dello Stato il proprio stile di vita e l’esito che ciascuno può determinare per la propria esistenza; il raggiungimento della propria felicità in armonia con gli altri (ugualmente liberi di poterlo fare): tutti questi sono i capisaldi di quella dottrina socio-economica che va sotto il nome di «capitalismo».
L’adozione di tali principi ispiratori - siano essi filosofici, politici o economici - contribuisce alla creazione di un «apparato» statale minimo ed efficiente, che garantisca tutte le libertà, in primis quella di poter fare, oltre a tutti i diritti naturali legati alla persona e, come tali, indisponibili e incoercibili da parte di qualsivoglia autorità costituita. Su queste basi si sono costruite le «Big Society», le grandi società aperte e tolleranti verso tutte le opinioni, tranne che nei confronti degli intolleranti. Ebbene tale sistema, liberale per i valori civici e liberista in economia (libero mercato di concorrenza), da oltre due secoli, ha determinato, in tutto il mondo, uno straordinario progresso sociale e un miglioramento significativo del benessere diffuso rispetto a ogni altra precedente epoca dell’umanità. E tuttavia non c’è parola più fraintesa, vituperata, mistificata e calunniata del «capitalismo».
Le ragioni di questa colossale ingratitudine e del disconoscimento degli indubbi suoi meriti sono molteplici. Prima fra tutte, la scarsa inclinazione della maggior parte degli individui a competere, ossia a misurarsi quotidianamente con le proprie capacità, ad assumersi i rischi di una esistenza, oppure di un’impresa, comunque legata ad incognite future e soggetta a continui cambiamenti per stare al passo con i tempi. Meglio aver assicurato un reddito minimo, magari mensile ed a vita, da uno Stato che ci segua dalla culla alla bara! Un padre padrone che poi finisca per interferire, condizionare e orientare la vita di ogni singolo cittadino, perché chi dispone di tutti i mezzi stabilisce poi anche tutti i fini. La seconda ragione è che l’antitesi al capitalismo, ossia il socialismo, è una dottrina che manda segnali rassicuranti, contiene elevati pensieri e propositi molto graditi, ossia che ci sia uno Stato che veda e provveda per le esigenze di tutti con un modello di società non competitiva che punti a determinare l’uguaglianza degli esiti della vita di tutti, indipendentemente da meriti, talenti e capacità di ciascuno di noi.
Insomma, un bozzolo entro il quale, non nasce l’invidia sociale e ciascuno può vivere la propria esistenza senza cambiamenti radicali e senza incognite future. Marx ed Engels, padri di questa teoria, misero a fuoco dialetticamente i punti critici del progresso storico che ha generato il mondo cosiddetto capitalista e borghese, descrivendolo come una realtà alienante, con drammatiche condizioni per i lavoratori e i proletari, sfruttati dagli imprenditori per ricavarne «profitto» attraverso il plus lavoro ed il relativo plus valore.
Presupposte come eterne ed immutabili, le contraddizioni interne del sistema capitalistico diventano, in tal modo, degli strumenti teorici per prospettare il varo i una nuova società più giusta: quella comunista. Una società nella quale lo Stato possiede tutti i mezzi di produzione e distribuisce le merci prodotte in parti eguali a tutti i suoi amministrati, secondo il criterio «da ognuno secondo le proprie capacità, a ognuno secondo i propri bisogni». Ma l’applicazione di quelle tesi rasserenanti si è sempre trasformata, nella realtà, in tirannia degli apparati centrali, del dominio delle nomenclature, nella forzosa uguaglianza degli individui, che ha come corollario la necessaria privazione di ogni libertà.
In disparte a tutta questa disquisizione, nessuno però può negare che il capitalismo abbia generato una rivoluzione incontestabile: la riduzione della povertà! Il capitalismo ha infatti tolto milioni di persone dalla fame, migliorando le condizioni materiali di esistenza ed aumentando l’aspettativa di vita. Le persone godono così di migliori condizioni di salute. La ricchezza prodotta, gli utili e i salari? Opportunamente tassati, finanziano il welfare e creano la solidarietà per gli svantaggiati. Innovazione e prosperità, ossia la continua innovazione tecnologica e merceologica di beni verificatasi rispetto a tutte le generazioni precedenti messe insieme, viaggiano a braccetto.
La causa di questi benefici riflessi risiede in un concetto semplice e accessibile a tutti: la società capitalistica non si regge sui buoni propositi e sui vaghi sentimenti altruistici di un astratto solidarismo. Si regge invece sulle libertà individuali e sulla comunione e la tutela dei reciproci interessi. In soldoni: più bassi sono i prezzi, migliore la qualità dei prodotti, più ampia sarà la platea acquirenti (interessi diffusi degli acquirenti) e la domanda che sostiene la produzione (interessi dell'imprenditore e dei lavoratori occupati). Da questa comunione di liberi e comuni intenti nascono progresso e benessere per il maggior numero di persone. In fondo è semplice capirlo, e basta un pizzico di coraggio per accettarlo.