Con l’approssimarsi delle elezioni regionali saremo sommersi da una marea di liste civiche. Una qualificazione - civica - non del tutto appropriata. Non promuovono, infatti, politiche per rafforzare l’attrattività di un contesto territoriale, per dare spazio e sostegno alle capacità dei cittadini, delle imprese, dei lavoratori di innovare i sistemi produttivi e per ridurre l’esclusione sociale rendendo sempre meglio disponibili i diritti di cittadinanza da cui dipende la crescita economica e sociale duratura.
Forse, nella propaganda elettorale qualche accenno a questi temi lo troveremo. Ma, se guardiamo all’esperienza passata, prevale il dubbio che la propaganda sia menzognera. Queste liste, per fare qualche esempio, non si occupano del pessimo stato di strade dissestate, prive di segnaletica, pericolose e coronate da rifiuti. Non si occupano di chiudere il ciclo dei rifiuti, perdendo opportunità di produrre energia e di risparmiare all’ambiente il moltiplicarsi di discariche che sono diventate un elemento fisso e pervasivo del panorama. Sono indifferenti al traffico e ai parcheggi caotici come da sempre sono nel capoluogo dove i piani per eliminare questi inconvenienti sono rimasti lettera morta. Lo so, sono esempi minori; ma solo apparentemente, perché non sono dei bei biglietti da visita per il turismo e per qualsiasi attività imprenditoriale e perché richiamano la teoria sociologica delle finestre rotte.
James Q. Wilson e George L. Kelling ci spiegano come anche una banale trascuratezza (una finestra rotta non prontamente riparata in quartiere, o un muro imbrattato di graffiti) faccia scivolare pian piano l’ambiente urbano su un piano inclinato di comportamenti degradati e disordinati sotto il profilo economico e sociale, anche penalmente rilevanti, inclusa la corruzione. Tutti si convincono che quella sciatteria sia la regola e si adeguano all’andazzo. E che le cose stanno proprio così lo confermano le cronache recenti e meno recenti.
Cosa sono, dunque, le liste civiche se non sono focalizzate su problemi simili a quelli esemplificati? Si sostiene che servano ad allargare la partecipazione dei cittadini al voto, a dare voce ad opinioni che non trovano spazio adeguato nei partiti organizzati. Senza fare di tutta l’erba un fascio, l’argomento non convince e, anzi, i fatti portano a ritenere erronea la tesi: più si è esteso il fenomeno delle liste civiche, minore è stato di pari passo l’esercizio del dovere elettorale dei cittadini. Prevalentemente perché queste liste sono percepite come espressione di personalismi, un mezzo per assicurarsi la fedeltà di attivisti elettorali - galoppini si diceva una volta - di un capo, più che di un partito, e per dare una patina di credibilità ai trasformismi. Oppure, nel migliore dei casi, perché accrescono il disorientamento dell’elettore nella scelta della rappresentanza politica.
E, una volta che queste liste abbiano conquistato qualche seggio nei consigli, generano instabilità nei governi locali esaltando la loro autonomia rispetto ai partiti che hanno elettoralmente fiancheggiato. Non solo pretendendo spazi negli esecutivi e incarichi nelle amministrazioni controllate dagli enti, ma anche rivendicando, forti del potere di condizionare una maggioranza, l’accoglimento di disparati interessi particolari - quando le liste civiche li esprimono - di problematica conciliabilità con una gestione decente dell’interesse generale e del bene comune.
Difficile dissipare il sospetto che anche la pretesa della Puglia di mantenere un numero di consiglieri maggiore del numero che era previsto in rapporto alla popolazione, andata a buon fine con una correzione ad hoc della disciplina legislativa che regolamentava la materia, sia stata influenzata dalle pressioni di formazioni civiche. Il fatto stupisce e turba per il paradosso che ha generato: passa con votazione quasi unanime la molto discutibile riduzione del numero di deputati e senatori - senza la minima preoccupazione per l’equilibrio della rappresentanza nei territori, che è stato il movente ufficiale della legge ottenuta dalla Puglia - e poi con disinvoltura si fa il contrario per le regioni. Non ci sono prove che le liste civiche rafforzino la democrazia, piuttosto la indeboliscono e disgregano. E ciò vale anche per la proliferazione delle liste nelle elezioni nazionali, favorita dalla pratica degli apparentamenti. Sono, perciò, un problema politico da non trascurare. Come ci ha insegnato Giovanni Sartori, ad influenzare l’elettore non è mai soltanto il sistema elettorale, concorre anche il sistema partitico. Quindi è nel ruolo dei partiti politici che va ricercata la causa del fenomeno «civico». Il momento dialetticamente topico per spiegare l’origine del fenomeno è il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. È allora che i partiti perdono la funzione naturale di veicolare le opinioni politiche espresse dalla società e di influenzare l’elettore. È allora che il partito organizzato di massa, cui si deve una utile istruzione politica anche per gli elettori meno acculturati che liberamente lo seguono, viene sostituito dai partiti dei notabili, apre la stura ai personalismi, non è più il soggetto che fa eleggere amministratori e governanti, ma al contrario è l’elettore, anzi, il capo singolo che «elegge» il partito con i suoi seguaci.
Se si vuole far tornare più elettori alle urne, è dal sistema elettorale che bisogna ripartire. Un sistema che riduca la frammentazione partitica, che impedisca il trucco -che abbiamo sperimentato - di chi partecipa al voto in una coalizione e dopo va al governo con una coalizione diversa; un sistema che privilegi la stabilità del governo e non la rappresentazione dell’infinito ventaglio delle opinioni minoritarie; un sistema che ridia smalto ai partiti, qualificati però dalla capacità di comunicare una visione, di esprimere competenze, di proiettare leadership consone ai grandi temi globali, nazionali e locali dell’epoca tormentata che attraversiamo.