Martedì 30 Settembre 2025 | 15:16

Il futuro dell’ex Ilva e quel bando bis affondato nel Mar Grande

 
Biagio Marzo

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Biagio Marzo

Il futuro dell’ex Ilva e quel bando bis affondato nel Mar Grande

Piangere lacrime di coccodrillo. Coloro che per anni hanno detto di cotte e di crude contro la siderurgia pubblica, oggi - di fronte al flop del bando bis del Mimit per la vendita di Acciaierie d’Italia (AdI) – versano lacrime di coccodrillo

Martedì 30 Settembre 2025, 13:00

Piangere lacrime di coccodrillo. Coloro che per anni hanno detto di cotte e di crude contro la siderurgia pubblica, oggi - di fronte al flop del bando bis del Mimit per la vendita di Acciaierie d’Italia (AdI) – versano lacrime di coccodrillo. Dopo mesi di proclami e speranze, siamo alla vigilia di portare, senza esagerare, i libri contabili in tribunale. I corifei della stagione privatistica si lamentano a più non posso, ma dovrebbero fare autocritica. I professionisti dell’ambientalismo dovrebbero battersi il petto in segno di pentimento.

A bando chiuso, il quadro è sconfortante, anzi da «de profundis». Le offerte presentate per l’ex Ilva sono state dieci, ma soltanto due riguardano l’acquisto dell’intero gruppo siderurgico - oggi gestito dallo Stato in amministrazione straordinaria dopo la fuoriuscita di ArcelorMittal - e sono entrambe riconducibili a fondi d’investimento, dei cui reali obiettivi poco o nulla si conosce. Le due offerte sono arrivate dal fondo Bedrock Industries e dal consorzio Flacks Group–Steel Business. Le altre otto proposte riguardano singoli «asset»: stabilimenti specifici - soprattutto Taranto, Genova e Novi Ligure - o addirittura solo reparti interni.

I commissari straordinari hanno fatto sapere che tra le offerte ve n’è anche una di un «soggetto politico» non meglio precisato, subito esclusa perché fuori dai criteri della gara. Si dice che sia una «cosa» vicina agli ambienti di Avs. Un altro dei tanti misteri che avvolgono l’ex Ilva, marchiata ormai Made in Mimit. In fin dei conti, meglio accontentarsi dello spezzatino che vivere sperando che arrivi un «cavaliere bianco». Benché i sindacati battono e ribattono sul chiodo della statalizzazione. Con questi chiari di luna, il governo, davanti ai dazi al 15% imposti da Trump e il 3% alla Nato, non sa a quale santo votarsi. A sorpresa, è spuntata come un fungo Renexia, sub-holding del gruppo Toto, attiva nelle rinnovabili e già titolare del parco eolico offshore nel golfo di Taranto, forte di buoni rapporti tra l’ex AD di ArcelorMittal, Lucia Morselli, e l’imprenditore abruzzese. Renexia ha manifestato interesse per i cosiddetti «servizi ancillari» dell’ex Ilva, proponendo un investimento di circa 5 miliardi di euro e la creazione di circa 1.500 posti di lavoro. Il progetto prevede la realizzazione e la gestione di infrastrutture a supporto del processo di decarbonizzazione: un rigassificatore a terra da costruire a Gioia Tauro, destinato ad alimentare i forni elettrici e il polo DRI (Direct Reduced Iron) di Taranto, oltre a una centrale termoelettrica e a un impianto di carpenteria. L’operazione immaginata da Carlo Toto - già noto per la compagnia aerea Air One, per le grandi opere autostradali e per l’ingresso nel settore delle rinnovabili - appare un azzardo, non fosse altro per il costo e la complessità di un gasdotto tra Gioia Tauro e Taranto.

A ben guardare, quella di AdI è davvero una «Cronaca di una morte annunciata», con la società nel ruolo di Santiago Nasar nel romanzo di García Márquez. Il ministro Adolfo Urso aveva allestito per mesi il suo «presepe» della decarbonizzazione, una narrazione che ha illuso non pochi osservatori e persino figure di primo piano del governo e della politica. Il racconto era semplice: entro sette anni, poi ridotti a cinque, il grande stabilimento siderurgico di Taranto –-il più vasto al mondo a ciclo integrale - avrebbe chiuso gli altiforni a coke, responsabili di emissioni di CO2, sostituendoli con forni elettrici alimentati da preridotto. Il piano, però, era privo di concretezza tecnico-ambientale e di precise coperture finanziarie. Prevedeva tre forni elettrici a Taranto, alimentati dal preridotto fornito da un polo Dri gestito da Baku Steel, con il gas garantito da una nave rigassificatrice. La produzione annua sarebbe stata di 6 milioni di tonnellate, destinata a salire a 8 milioni grazie a un quarto forno elettrico da costruire a Genova: «Genova, dicevo, è un’idea come un’altra…», canta Paolo Conte. Peccato che quell’idea non sia mai stata neppure discussa seriamente con le istituzioni liguri.

La decarbonizzazione è rimasta confinata nel libro dei sogni. Il generale Agosto-Urso, con la benevolenza di Emiliano, viveva in un «sogno di una notte di mezza estate», beandosi di aver già portato in porto la transizione green. Gli azeri, obtorto collo, avevano accettato l’impianto generale del piano. Era il loro ritorno sul «luogo del delitto»: al primo bando, nel 2024, erano stati i favoriti, pronti a investire 1 miliardo di euro. Ma dopo l’incendio dell’Altoforno 1, sequestrato dalla Procura di Taranto, avevano dimezzato l’offerta, rendendola incompatibile con le richieste economico-industriali di AdI.Un passaggio decisivo, però, viene spesso taciuto: Baku Steel si è sfilata perché le istituzioni locali non hanno accettato l’installazione di un rigassificatore, indispensabile per garantire il gas al nuovo ciclo produttivo. Il governo, pur avendo pieno titolo per far valere l’interesse strategico nazionale della siderurgia, non ha avuto il coraggio politico di imporsi: un altro mistero italiano. La società azera Socar, che avrebbe dovuto assicurare il rifornimento di gas, ha così preferito investire 2,5 miliardi di euro nelle 4.500 stazioni di servizio del gruppo Api-Ip della famiglia Brachetti Peretti, ritenendolo un impiego più sicuro e redditizio.

La magistratura tarantina non ha ancora dissequestrato l’area a caldo. A futura memoria, va ricordato che la magistratura inquirente, nei decenni passati, con una sequenza di inchieste ha contribuito a mettere in ginocchio la chimica pubblica italiana. Con la stessa determinazione, nell’anno di grazia 2012, intervenne contro la siderurgia, colpendo l’Ilva di Taranto con provvedimenti giudiziari durissimi. L’epilogo di quella stagione è ancora aperto: la siderurgia nazionale, già indebolita da scelte industriali e politiche sbagliate, rischia oggi la sorte della chimica, di cui resta soltanto il ricordo. Due settori chiave per il sistema-Italia: la chimica è ormai morta e sepolta, la siderurgia rischia di seguirla. Al bando del 2024 partecipò anche il gruppo indiano Jindal Steel, che, vista la malaparata, nel 2025 ha preferito investire nella storica Thyssenkrupp Steel in Germania. Jindal, con accesso diretto alle materie prime e solide competenze nella transizione ecologica, avrebbe potuto contribuire al processo di decarbonizzazione di Taranto. Per la Thyssenkrupp, alle prese con la crisi economica, i costi energetici e la concorrenza cinese, l’ingresso di un partner industriale era «grasso che cola»: la capacità produttiva scenderà da 11,5 a meno di 9 milioni di tonnellate annue, con 11.000 posti di lavoro destinati a essere tagliati o esternalizzati, anche se non si prevedono licenziamenti secchi. Jindal ha tentato a lungo di entrare nel mercato europeo passando per l’ex Ilva, ma ha trovato un muro eretto tanto dai vertici attuali di AdI quanto dagli esperti siderurgici del Mimit. Dopo l’esperienza negativa con ArcelorMittal e la gestione Morselli, a Roma non volevano ripetere la storia.

Di recente, Jindal era tornato alla carica, proponendo l’acquisizione di AdI a patto di poter costruire, alla bisogna, i forni elettrici, rifornendosi di preridotto dal grande stabilimento green aperto in Oman.

In ultima analisi, Taranto deve interrogarsi sulle vere cause dell’attuale crisi - una crisi che sta trascinando l’area in un declinismo irreversibile e rischia di gettare sul lastrico migliaia di famiglie. Già i cassintegrati sono 3.500 solo a Taranto su un totale di 4.050, includendo le altre aziende siderurgiche sparse per l’Italia. Un prezzo salatissimo, pagato a partire dal processo di privatizzazione, di cui ancora oggi non si conosce il vero costo: quanto abbiano pagato i Riva per acquistare l’ex Italsider-Ilva nel 1994 resta un mistero. Si sa soltanto che l’azienda valeva allora 4,8 miliardi di lire. Il secondo anello della catena di responsabilità è l’azione della Procura di Taranto nel 2012: pur in presenza di una grave emergenza sanitaria e di innegabili responsabilità industriali, l’intervento fu condotto sull’onda dell’ambientalismo radicale, senza considerare appieno le ricadute socio-economiche. A ciò si aggiunse la spettacolarizzazione mediatica, che colpì duramente l’immagine di Taranto nel mondo. Dulcis in fundo, un ringraziamento speciale va rivolto sia agli Enti locali, che hanno pasticciato con problematiche industriali e ambientali con competenze approssimative, sia ai governi succedutisi negli ultimi decenni.

Chiaramente, non si può far portare l’intera croce al solo ministro Urso: essa andrebbe divisa equamente con i presidenti del Consiglio che, a turno, hanno lasciato la siderurgia italiana scivolare verso il declino. E così il bando bis, annunciato come la via di salvezza, ha finito per fare acqua da tutte le parti, affondando nel Mar Grande di Taranto, insieme alle ultime speranze di un rilancio della siderurgia.

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